Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Leggere libri fa la differenza

Uno dei fattori che fa la differenza in un professionista, direi di qualsiasi settore e ancor più per chi ha delle responsabilità più grandi, è la lettura. Ma non di manuali, compendi, dispense di carattere tecnico; ma la lettura di romanzi. Come afferma più di uno scrittore (e diverse migliaia di lettori per fortuna), le storie dei romanzi permettono di calarsi in altri mondi, atmosfere, contesti che nella vita reale sarebbe sicuramente più difficile incontrare.

E poi la lettura permette di conoscere in maniera che vorrei definire “divergente”, incoerente e per questo più ricca. Studiare la propria materia di competenza è importante perché, come senza le fondamenta nessuna costruzione rimane salda nel tempo, così senza studio nessuno di noi riesce a crescere, evolvere, acquisire credibilità. La lettura di libri che non siano “testi tecnici” aiuta invece a proiettare la nostra mente, con tutte le sue conoscenze, in una sorta di spazio in cui possiamo sperimentare la pienezza di quel che sappiamo e lo stupore di quello che ancora non abbiamo appreso. Per me è una specie di magia. Che a volte riserva anche delle sorprese.

Faccio un esempio pratico. Durante un discussione all’interno di un corso di formazione ne quale faccio docenza, è uscito il tema della qualità (delle imprese, dei prodotti, del lavoro) contrapposto a quello della quantità. Ci siamo soffermati a confrontarci che cosa significasse “qualità” trovando definizioni e considerazioni diverse. Poi è accaduto che leggendo il libro “Occhi selvaggi”, un romanzo di Sandro Baldoni (edizioni e/o 2022), ho trovato questa definizione che un maestro da al protagonista

Qualità è per me un termine misterioso e fatalmente abusato. Più che alle caratteristiche tecniche di un certo prodotto finale è forse corretto riferirla a un insieme di atteggiamenti, a un codice di comportamento. Si può pensare che la qualità risieda in un misto di ostinazione, sordità alle mode, strategia dei tempi lunghi, amore per i dettagli, per la parola ben scritta, attenzione per la misura, la proporzione e il peso, intransigente cura per il ben fatto anche dove non si vede, saggia rassegnazione al costo e paziente attesa dei risultati.

La prossima volta la porterò sicuramente ai miei studenti e, raccontando loro come l’ho trovata, dirò anche che non so se questa è la cosiddetta serendipità però so che in quel romanzo, come in tanti altri, ci sono tesori nascosti e risorse inaspettate che aspettano solo che qualcuno le trovi e le utilizzi per imparare e crescere un po’.

Più sei piccolo, più deve essere consistente

Il titolo di questo articolo mi fa un po’ vergognare perché, lo ammetto, ha quell’allusione da comicità pecoreccia che di solito non mi piace affatto. Chiaramente il tema non è “quello”, ma qualcosa che sta molto di più nelle mie corde: i contenuti (consistenti) nella comunicazione.

Mi è capitato recentemente, più spesso del solito, di sentire dinamici creatori di contenuti, social media manager, addetti alla comunicazione (e non solo) affermare con una certa sicurezza che “tanto la gente non legge, non vale la pena scrivere tanto“. Mi permetto di dissentire e di spiegarlo con quelle che ritengo motivazioni plausibili.

La “gente”. Innanzitutto diffido di tutte le sentenze che hanno come soggetto attivo questo nome comune indefinito che, di fatto, quando viene usato (oralmente o per scritto) è uno dei primi segnali delle generalizzazioni che vanno bene quasi per tutto e per niente. “La gente” è qualcosa di indefinito, lontano (quasi mai chi lo usa se ne sente ricompreso) e spesso avverso (la gente è sempre quella che sbaglia). Credo che per comunicare qualcosa in maniera efficace, elaborare un contenuto che possa essere letto (visto o ascoltato) sia più fruttuoso immaginarci un “noi” oppure costruire o immaginare da chi sarà composto il pubblico a cui vorremmo dire qualcosa.

Leggere e ascoltare poco. Siamo proprio sicuri che questa sentenza sia vera sempre e comunque? A me pare più vicino alla realtà un altro diverso presupposto. La quantità di contenuto fruito, in termini di profondità e non di diversificazione, credo che dipenda da almeno un paio di variabili. La prima è rappresentata dalla tipologia di fruitore: non solo dati anagrafici (della serie i “vecchi” leggono di più e i “giovani” non leggono, che poi non è nemmeno così vero), ma anche stili e abitudini di vita nonché il percorso con il quale l’utente entra in contatto con il contenuto prodotto. La seconda riguarda il contesto (quali sono i contenuti, in che ambito li diffondiamo, che brand stiamo proponendo se si tratta di comunicazione legata al marketing) e il valore del contenuto (o del prodotto): se sto proponendo un contenuto per il quale a chi ascolta è richiesto un investimento (in tempo, in denaro o altro), credo che la quantità di informazioni da distribuire aumenti in proporzione. Per portare qualcuno a interessarsi all’acquisto di un auto siamo sicuri che basti un video divertente di 30 secondi?

Livello di attenzione. E veniamo alla questione su cui concordo rispetto all’efficacia di una comunicazione veloce e superficiale. Ormai da tempo la soglia di attenzione dell’utente medio su web (o l’attenzione media su web) è attestata su livelli da pesce rosso (come recita una leggenda circolata per anni), cioè molto bassi: lo scroll è frenetico e incessante e quindi la presunta bravura sarebbe quella di far fermare per qualche secondo in più a “riflettere” l’utente sul contenuto che proponiamo (una sosta in ogni caso disinvolta e sfuggente). Si tratta, a mio avviso, di una fase (la prima?) della comunicazione on line e forse, in qualche caso, nemmeno della più importante. Può essere vero che a un basso livello di attenzione corrisponda una comunicazione veloce e superficiale, ma se vogliamo intercettare anche un livello di interesse (alto o basso che sia), dobbiamo restituire qualcosa che alimenti e soddisfi quell’interesse. E se vogliamo rimanere nel marketing, credo che i potenziali clienti siano quelli che hanno interesse in quel che diciamo e non solo una rapida e fugace voglia di divertirsi. 

A me pare, per tornare al titolo pecoreccio, che l’investimento sull’elaborazione di contenuti un po’ più corposi a fianco di quelli più leggeri, sia ancora più necessaria per realtà piccole e locali, per quei brand che non sono ancora del tutto riconosciuti (e qualche volta nemmeno conosciuti): in questi casi la lotta per catturare l’attenzione sfuggente degli utenti rischia di essere dispendiosa e poco proficua. Sarebbe meglio, a mio avviso, concentrare l’attenzione, attraverso i contenuti, sulla costruzione della propria identità di marca (a proposito, tra qualche settimana se ne parlerà al Brand Festival), sulla definizione della proposta di valore, sulla soddisfazione delle richieste degli utenti che dimostrano interesse.

Meno attenti, meno competenti

Non so se viviamo, come dice qualcuno, in una società di distrazione di massa. Mi limito ad osservare quello che accade nei luoghi di lavoro (in senso lato di contesti) in cui mi trovo. Quello che osservo è un progressivo, più o meno lento, calo della competenza e della conoscenza di temi e contenuti a causa della distrazione a cui ci conduce “l’internet” (come direbbero gli Elio e le Storie Tese).

Il tema è quello della pluralità delle fonti (che chiamerò così per correttezza professionale, ma che potrei definire gergalmente “la mondezza nei social”) e della bolla informativa (anche qui: pigrizia conoscitiva, se nessuno si offende): lo schermo digitale, che da tempo è una dinamica finestra sul mondo, ci illumina (o abbaglia?) con una quantità quasi infinita di notizie, commenti, contenuti tanto da farci perdere, a volte, la certezza di quello che conosciamo.

Se è pur vero che la conoscenza è per sua natura un contenitore senza fondo e che possiamo (forse dovremmo) trascorrere la vita a imparare sempre cose nuove, è altrettanto verificabile che la maggior disponibilità di contenuti non ci permette sempre di guadagnare in “virtute e conoscenza” (scusate, ma è pur sempre l’anno di Dante). Qualche indizio. Verificando la cronologia del browser, quanto è diversificata, nel medio e lungo periodo, la tipologia di link? Delegando a un’apposita app il monitoraggio, che valori si registrano nell’utilizzo di social media (o di un solo social media)? Lavoro (anche) in un posto dove ormai molti anni fa si leggevano i giornali per documentarsi; ora sono stati sostituiti da fonti web ma mi chiedo: di eguale autorevolezza (attualizzata) e profondità (intesa anche come tempo dedicato)?

Abbiamo iniziato a produrre contenuti dimenticandoci quanto questo, in teoria, comporti studi, impegno, energie e tempo per elaborarli. Il click per pubblicare è facile, lo smartphone scatta belle foto (o ha l’app giusta per farle sembrare tali), condividere è un passaggio semplice e fare tutto questo non costa fatica. Credo che la fatica ci farebbe pensare. Credo che la velocità abbia fatto perdere la solidità. Una delle conseguenze, ritengo, è che così facendo perdiamo anche in competenza in ciò che ci facciamo: fermandoci alle prime apparenze non destiniamo le giuste risorse per costruire le nostre competenze. Rischiamo di essere superficialmente (in)competenti su troppi versanti per poter affermare di essere realmente espert* di qualcosa.

“Panta rei”, tutto scorre. Ma il flusso informativo è molto meno filosofico del pensiero di Eraclito secondo cui il divenire ci impedisce di vivere la stessa esperienza due volte. Lo abbiamo tradotto in un lascivo ed effimero “senso di fretta” privo di orientamento. Gli inglesi, nella comunicazione, ammoniscono “less is more”: credo che abbiamo bisogno di fare (scrivere, pubblicare, commentare, produrre) meno per avere e essere “di più”.

Identità digitale

Lo scorso fine settimana ho scoperto uno strumento simpatico per calcolare la rilevanza della propria identità digitale. Più indicato per chi è alle prime armi, piuttosto che per chi è un utilizzatore professionale degli strumenti digitali (social media, blog, ecc.).

On line ID calculator è basato sulle ricerche Google e chiede di rispondere a 10 semplici domande per fare una stima della propria rilevanza digitale. In realtà la disamina, perlomeno nel contesto italiano, forse è un po’ superficiale. Però può restituire indicazioni interessanti. Anche perché offre alcuni spunti su come lavorare e aggiustare il tiro qualora la propria “impronta digitale” non sia così performante.

Quando avrete risposto alle domande, On line ID calculator posizionerà il vostro brand all’interno di un quadrante su cui sono rappresentati volume e rilevanza della vostra presenza on line: i quadranti in cui potreste posizionarvi sono “digitally disastrous” (molta presenza ma poco qualificata), “digitally dissed” (poca presenza e poco qualificata), “digitally dabbing” (poca presenza ma molto qualificata), “digitally distinct” (molta presenza qualificata).

Il sistema vi da anche dei consigli che riguardano la “purezza” (quanto i risultati on line rappresentano in maniera coerente il vostro brand),  la “diversità” (la varietà di piattaforme su cui siete presenti e la varietà di contenuti con cui lo siete), la “credibilità” (cioè quanto i risultati che vi rappresentano lo fanno in maniera buona).

A cosa serve uno strumento come questo? Dal mio punto di vista, come accade (o forse è meglio dire come è accaduto) con Klout, ad avere un benchmarking delle proprie attività online. Sconsiglio di mettersi a paragonare il proprio risultato con quello degli altri (a mo’ di gara) oppure di utilizzarlo come indicatore (quasi) unico della professionalità di un soggetto.

La prova la possono fare professionisti ed anche aziende e organizzazioni: quello che si può misurare è un brand nel senso più lato possibile. Personalmente ho fatto la prova e il distintivo che ho ottenuto è quello qui sotto. 🙂

 

 

I am digitally distinct! Visit onlineIDCalculator.com

Quello che le password non dicono

Qualche giorno fa mi è stato chiesto di intervenire alla presentazione di un piccolo prodotto editoriale con un intervento dedicato alle password e a quello che rappresentano. La ricerca e quel che ho trovato mi hanno spinto a riportare la riflessione in questo post.

I codici cifrati che utilizziamo quotidianamente per proteggere i nostri dati in realtà ormai sottendono un po’ tutto il nostro mondo. Le password “nascondono” agli occhi degli altri (o almeno così speriamo) tre aspetti fondamentali della nostra vita. I nostri ricordi, perché ormai archiviamo gran parte delle cose che ci succedono (foto e non solo) all’interno di archivi informatici (locali, come il nostro computer, oppure remoti, con sistemi cloud); i nostri soldi (sarà un aspetto poco nobile, ma sicuramente essenziale), perché ormai i sistemi di home banking e trasferimento immateriale di denaro sono uno standard; le nostre relazioni, perché dall’avvento dei social network giochiamo una buona parte della nostra vita emotiva con una mediazione informatica. Ricordi, soldi e relazioni che affidiamo alla sicurezza delle password. Mi sembra una buona dimostrazione di fiducia: ma come scegliamo le password?

Tecnicamente, in generale, non siamo molto bravi considerato che (dati del 2015) ancora una persona su 1000 sceglie come password la parola “password” e due su 10 scelgono la composizione nome e anno (decisamente vulnerabile). Ma la risposta che voglio dare alla domanda (come scegliamo le password) non è tecnica. Mi ha colpito il percorso (non so se chiamarlo report o dossier) che ha realizzato Ian Urbina, giornalista del New York Times, su quella che lui ha chiamato “la vita segreta delle password” (qui l’articolo in lingua inglese). Il meccanismo con cui scegliamo le password in realtà ha molto a che vedere con le nostre emozioni.

Le password che scegliamo sono spesso legate a ricordi emozionalmente importanti della nostra vita.

Negli esempi che riporta Urbina (al link la versione in italiano) c’è chi ha scelto la propria password collegandola alla fine di una storia di amore, chi a un ricordo della propria giovinezza, chi a un proprio obiettivo. C’è chi ha utilizzato ironia e chi invece il dolore: le password sono intrise di metafore, a volte persino pathos.

In ogni caso le password che scegliamo non sono mai banali o codici qualunque.  Come dice una persona intervistata da Urbina le password sono “poesie di una sola parola“. Mi piace pensare allora che dietro a ogni password in realtà ci sia una storia e che se avessimo un posto in cui raccogliere tutte le password che abbiamo utilizzato, quel posto non sarebbe una rubrica o un fascicolo pieno di codici. In realtà sarebbe un nostro diario, il racconto per codici della nostra vita, la storia delle nostre emozioni.

 

PS: in realtà c’è chi questo diario lo ha realizzato (quello della foto); lo potete trovare alla Libreria IoBook di Senigallia.