Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Darwin, il marketing e altri cambiamenti

(HOW) Come è possibile che in uno stesso contesto si possa parlare di tutte queste cose che, apparentemente,non hanno nulla in comune? Ci provo perché “Darwin”, “marketing” e “cambiamento” sono termini che ho sentito durante l’appuntamento NetworkLab dello scorso 8 marzo. Partiamo dall’inizio. “Solamente pochi credono che le specie subiscano delle modificazioni, e che le forme viventi attuali discendano per mezzo di generazione regolare da forme preesistenti“.  A me pare che questa definizione darwiniana si possa adattare piuttosto comodamente anche all’evoluzione che sta facendo il marketing attraverso il web ed i social media.

La tecnologia, bonariamente invadente e assolutamente affascinante, entra in maniera inesorabile nella vita dei consumatori che, comunque, si adattano (ed anche piuttosto bene). Come emerge dalla ricerca condotta da NetworkLab, oltre al fatto che nel mondo presumibilmente ci sono più cellulari che spazzolini da denti,  il 51% degli italiani possiede uno smartphone, il 74% degli acquisti nascono da una ricerca su uno smartphone. Le aziende non seguono ancora l’evoluzione, considerato che il 79% dei siti non sono ottimizzati per gli smartphone (devo ringraziare lo Storify di Cristiano Carriero per i dati). In questo senso condivido quel che ha detto Valerio Villani, web marketing manager di Fastweb: il trend tecnologico va seguito e sfruttato al meglio: non è un monito ma una necessità evolutiva (Darwin docet) che offre, oltre le difficoltà, tante opportunità (dovrebbero essere una leva contro le resistenze al cambiamento).

Il mobile marketing è un’evoluzione, una progressione della personalizzazione del web (come ha detto in maniera arguta Antonio Votino di ICTeam): per questo il momento centrale della fidelizzazione del cliente sarà sempre meno la transazione e sempre più la relazione  (con un interrogativo a mio avviso, in parte irrisolto, sulla valorizzazione reale di quest’ultima). Su questo punto c’è una cosa che a me interessa particolarmente ed è il grado di integrazione tra azioni di mobile marketing (come lo possono essere le applicazioni che generano lead) ed il retail: i punti vendita dovrebbero sfruttare le applicazioni per incrementare il numero e la qualità delle esperienze positive.  In tal senso pare che i driver vincenti siano la convenienza (sempre possibile?) e la socializzazione anche se al momento, forse, viaggiano su due binari paralleli (la mia esperienza è che nelle organizzazioni chi si occupa di una non parla con chi segue l’altra). Forse il concetto di social location, espresso dal digital marketing manager di Patrizia Pepe  Jacopo Laganga, include anche la capacità di far dialogare questi due aspetti: con l’obiettivo di portare il social sempre più verso il customer care.

Infine, a proposito di evoluzione, mi sento di fare i complimenti a chi ha organizzato l’evento perché anche se ci sono ancora dei margini di miglioramento (il wi-fi non dovrà avere più segreti) mi è parso di vedere una progressione dalla scorsa edizione. Sufficiente a farmi avere già adesso grandi aspettative per la prossima. Insomma: WOW!

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Il social lavoro

Oggi tutto può essere social. A volte deve esserlo. La parola social è una riscoperta, in parte, fatta nel tempo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione (ICT). Ma dietro la comunicazione tecnologica ci sono un sacco di cose diverse. Realtà, strategie, filosofie, tecnologie diverse: sistemi gestionali, web 2.0, social network; ma anche nuovi modi di fare formazione, di produrre,di organizzare la vita delle persone.  In teoria, una rivoluzione. Nella pratica le cose son un po’ diverse, quantomeno nelle aziende e nelle  organizzazioni.

La responsabilità è della cultura e della mentalità dominante, in particolare tra le figure manageriali e tra chi ha il compito (ingrato di questi tempi) di gestire gruppi, organizzazioni, società. La cultura del posto fisso ha influenzato anche le sfere decisionali: la logica per cui c’è sempre un migliore da porre alla guida di tutti gli altri è figlia di questo genere di pensiero individualista, che non fa conto (perlomeno in prima ed istintiva istanza) sulla logica della rete, della socialità, della condivisione. Questo però non aiuta il cambiamento, proprio quello per le quali le nuove tecnologie sono “abilitanti”. Nel senso che la “vita digitale”,  la cui nascita e crescita è dovuta principalmente ai social media, si sviluppa in un nuovo ambiente, in una diversa dimensione, con un orizzonte a cui non eravamo abituati. Un ambiente (in tutti i sensi) creato ma non ancora dominato (ammesso e non concesso che il paradigma della dominazione sia quello corretto).

Il social lavoro, dal mio punto di vista, è proprio questo: il processo attraverso il quale le persone e le organizzazioni riusciranno ad inserirsi in maniera soddisfacente e produttiva all’interno di questa dimensione nuova che, contrariamente a quanto si può pensare in prima battuta, non è una dimensione totalmente digitale. Il social lavoro è la possibilità di estendere la propria identità professionale in ambienti nuovi e differenti. Coinvolgimento, entusiasmo, cura delle relazioni personali, possibilità di fare cose nuove insieme, definizione di nuovi stili: sono questi i driver che possono aiutare a condurre i team di lavoro verso il successo. Minor attenzione alle individualità ed ai segni esteriori del lavoro, maggior cura nel coordinare le risorse e nel raggiungere obiettivi condivisi in gruppo. Per questo è necessaria una cultura (ed una formazione) che ci aiuti a far funzionare il cervello in maniera ramificata e non accentrata, che ci spinga a cercare gli altri e non ad affrontarli, a vedere il sistema e non solo il risultato.

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Forward business.

“Siamo un’impresa, non un’azienda”: la frase non è mia ma, come qualche volta accade, è come se lo fosse tanto la trovo vera e convincente. Ma non è solo questo a legare la mia forma mentis (professionale) ad una realtà come quella del Gruppo Loccioni che ho avuto il piacere di ritrovare durante l’open demo del Muster di FiordiRisorse. Vorrei condividere, perché li trovo utili. alcuni spunti interessanti emersi da una giornata che è stata formativa in una maniera diversa,dinamica e innovativa (come questa iniziativa effettivamente dice di essere). Li riassumo in tre punti cercando di essere quanto più possibile esaustivo nello spiegare come si possa costruire un business che guarda avanti, che si sviluppa continuamente; quello che ho chiamato nel titolo “forward business“.

Il primo punto è l’identità che possiamo definire partendo proprio dalla frase all’inizio di questo post. Azienda ed impresa  non sono la stessa cosa dal punto di vista linguistico e, quindi, nemmeno da quello operativo (per me che ho fatto una tesi sullo start-up di impresa questo concetto è quanto mai cruciale). L’azienda è un’organizzazione mentre l’impresa è un’idea che si sviluppa, possibilmente guardando al futuro. Ed è molto diverso se chi lavora in un’organizzazione si identifica con un’azienda (facendo attenzione solo a mansioni, livelli, posizioni) o con l’impresa (e quindi con un progetto, un obiettivo, una visione); una differenza che può trasformarsi in vantaggio competitivo.

Il secondo punto è la prospettiva: questa è la capacità di inserire la propria vision all’interno di uno schema o, meglio, di un progetto senza che questo diventi un rigido vincolo (il video one point prospective sintetizza a mio giudizio molto bene questo tipo di capacità). Una prospettiva che ha come punto centrale il cliente (il suo one-point). Il cliente diventa così parte del progetto stesso e non solo il compratore del prodotto o servizio finale: questa è una prospettiva per la quale ci vuole un buon regista e, soprattutto, una visione (ed una capacità e possibilità di investire) di lungo periodo che non sempre si può semplicemente adottare. Servono tempi e modalità che non siano calibrati sull’immediatezza ma sulla disponibilità (entrambe fanno sì che quando il cliente chiama subito si risponde, ma con due idee e strategie diverse).

Il terzo punto riguarda la capacità di costruire reti o, meglio, di essere reti. Credo che la differenza sia nella possibilità che si ha, nel secondo caso, di “restare giovani””. Non è una questione anagrafica (non solo perlomeno). Il network si costruisce su un obiettivo chiaro e condiviso, su qualcosa di operativo da realizzare in breve tempo, sulla condivisione di uno spazio e di un tempo (il mercato ad esempio). Ma quello che anima una rete sono i valori, non tanto le competenze: in un network che fa rimanere giovani è importante riuscire ad imparare qualcosa dagli altri senza paura di che è migliore di noi. Una sorta di evoluzione collaborativa. Tanto facile da predicare, quanto ostica da praticare.

Concludo questo post con una frase che ho scritto anche su twitter quando ho visto con quale metafora ludica si intendono i progetti all’interno di quella che è stata definita una play-factory: progettare è un gioco tutto da misurare. Un gioco nel quale non bisogna aver timore di cimentarsi, in cui la “prima risposta è sempre -perché no?-“, in cui lo stile è quello di chi ha intenzione di lasciare il contesto migliore di come lo ha trovato. Un gioco che diventa un business,  forward business.

La brand reputation è musica!

There is only one thing in the world worse than being talked about, and that is not being talked about“: il concetto pronunciato da Oscar Wilde è chiaro. O meglio, è sempre stato interpretato così: non importa come se ne parli, purché se ne parli. Di questo concetto ancora oggi, a mio parere, rimane vera una parte: se nessuno parla di noi o della nostra organizzazione probabilmente non è stato fatto un buon lavoro di comunicazione. Ma è ancora importante che siano in molti, per forza, a parlare del nostro brand (personale o commerciale che sia)? Non è forse più decisivo il contenuto di ciò che le persone dicono? Le risposte che si trovano in articoli, recensioni, blog e quant’altro crea informazione su questo tema portano tutte alla stessa meta: la reputation, un tema che anche in questo blog ho affrontato altre volte.

Ma la frase con cui ho iniziato questo post mi ha fatto riflettere anche su un altro concetto nel tentativo, spero non vano, di fornire una ulteriore chiave di lettura. A  mio modo di vedere tutto quanto fa marketing, comunicazione, branding (per usare un termine odioso) su web può essere assimilato in qualche maniera alla musica: in entrambi i casi abbiamo a che fare con un pubblico, con degli strumenti e con delle percezioni. Nel caso della musica le percezioni vengono dalle note, in quello del web dall’umore, dal passaparola, dalla reputazione appunto (o dal sentiment, per utilizzare un altro termine poco sonoro appunto).

Da bravi musicisti del web, quindi, che si deve fare prima di salire sul palco? Perché è di questo che stiamo parlando, il web ed i social media sono il palco in cui si misura qualsiasi b(r)and. Primo step: affinare l’utilizzo degli strumenti. Nessuna band che si rispetti affiderebbe il proprio successo ad una chitarra scordata (l’improvvisazione non paga nemmeno online). Secondo step: che pubblico abbiamo e che cosa si aspetta da noi? Innanzitutto un pubblico bisogna averlo: costruirlo, coltivarlo, fare in modo che cresca (anche su web: non mi è mai piaciuta la conta di follower e fan, ma è chiaro che esiste una massa critica, diversa da contesto a contesto, su cui si possa contare). In secondo luogo se non siamo in empatia con chi aspetta la nostra esibizione difficilmente realizzeremo un evento imperdibile (ed ogni vendita, per esempio, deve essere un’opportunità imperdibile per i nostri clienti). Terzo step: suoniamo delle note che facciano applaudire il pubblico (ogni nostro prodotto e servizio deve essere pensato e creato affinché possa risvegliare una qualche emozione nei nostri clienti, magari piccola, magari inaspettata).

Può sembrare incredibile ma quello che un brand può fare per avere successo è della buona musica. Una nota marca di birra lo ha capito quando, forse in tempi non sospetti, già dichiarava: sounds good!

Non uccidere la startup

Circola sul web un breve articolo con le indicazioni sugli errori (giuridici) che possono “uccidere” una startup. Lo ha scritto un’autrice americana. Ci sono avvertenze che possono utilmente essere “convertite” (non solo tradotte) e rese utili anche per chi vuol far partire la propria impresa in Italia. I quattro accorgimenti suggeriti possono sembrare stupidi, ma a volte le grandi idee sono stroncate, o messe in discussione, da sciocchezze.

Dunque, un primo accorgimento riguarda la scelta della forma societaria. Sarebbe opportuno sceglierla con cura e, laddove possibile, differenziare la natura giuridica dell’imprenditore da quella della società, In altre parole è preferibile optare per la forma in società di capitali piuttosto che quella di persone. Per l’ordinamento giuridico italiano questo comporta, detto in sintesi, che le conseguenze patrimoniali delle vicende dell’impresa non coinvolgano anche l’imprenditore (salvo il caso di reati naturalmente). Per scegliere la forma giusta è importante avvalersi del supporto di un consulente in fase di progettazione e di un esperto in materia fiscale in fase di realizzazione.

Secondo consiglio: proteggere la proprietà intellettuale. In un mondo fondato sulla condivisione e sul concetto di open source pare anacronistico ricorrere a brevetti, marchi e diritti di copyright sulle proprietà intellettuali. Ma se sulle idee si fonda l’impresa (soprattutto per quel che riguarda le web startup) e su quelle sono stati investiti dei soldi, c’è un momento nel quale l’investimento (e l’impresa) va protetto perché possa crescere nel tempo.

La giusta strategia nella gestione dei rapporti di collaborazione (lavoro) è il terzo punto sul quale porre attenzione. Siglare accordi (contratti) regolari non è solo è un segnale di correttezza e trasparenza ma è anche il modo migliore per fidelizzare chi lavora nell’organizzazione. Diversamente il rischio è che fugga verso “lidi migliori” portando con sé i frutti del lavoro fatto. Bill Gates asserisce che non c’è miglior modo di aiutare la concorrenza che assumere la persona sbagliata. Anche farla fuggire potrebbe essere un un assist non voluto ai nostri competitor.

Verba volant, scripta manent” ammonivano i nostri antenati di lingua latina. Concludere gli affari in forma scritta aiuta ad essere più chiari e trasparenti ma anche ad aver sempre il controllo del proprio lavoro; un segno di rispetto prima ancora che una precauzione.

L’obbiettivo è quello di evitare di essere, involontariamente, i killer della nostra stessa creazione; semplici accorgimenti come questi possono essere utili a proteggere una startup ed a preservare il successo della propria impresa.

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