Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

La nostra impresa, un’opera d’arte reattiva

Questo ed alcuni altri post che trovate su questo blog sono il frutto di un lavoro di narrazione che ho realizzato per un’azienda di software. 

“Abbiamo capito che la nostra impresa, per quanto ne potessimo essere affascinati, non poteva vivere da sola. Avevamo bisogno di darle gli strumenti per interagire con l’esterno in maniera efficace e interessante: noi vogliamo che la nostra sia un’impresa che instauri relazioni significative con tutti”.

Vi siete mai chiesti come mai le opere d’arte sono esposte in musei o spazi dedicati? No, non è solo per farle vedere perché per questo basterebbe una fotografia ben fatta e caricata su web. Il motivo vero è che le opere in mostra costruiscono una relazione con i visitatori che le guardano dal vivo. Chi è stato in un museo almeno una volta, di propria volontà (le gite scolastiche forzate non valgono), sa che questo è vero: per esempio la prima volta che vedi Guernica di Picasso non vorresti più andare via e dopo qualche tempo senti il desiderio di tornarci. La Gioconda di Leonardo, al Louvre, è la donna che riceve più visite in tutta la Francia (senza malizia). Le persone instaurano con queste opere un rapporto speciale, perché trovano che questo sia un modo per stare meglio.

Noi volevamo che il sistema di relazioni e contatti fossero ispirati a questo stesso tipo di attrazione e, al contempo, che le relazioni che abbiamo fossero anche per noi positive: proficue, allineate ai nostri valori, di reciproco scambio, culturalmente arricchenti. In una sola parola: “giuste”. Su questo abbiamo lavorato nel disegnare anche questo aspetto della nostra impresa.

Il nostro modo di gestire relazioni significative.

Anche in questo caso abbiamo lavorato su tre aspetti cardine su cui implementare le nostre attività: il portfolio management (che rappresenta il nostro modo di curare i clienti), il relationship garden (che rappresenta il nostro modo di curare le relazioni con gli altri), il growth engine (lo stile e il modo con il quale ci muoviamo all’interno delle relazioni).

Il metodo utilizzato è lo stesso delle altre aree: principi, processi e attori da cui nascono poi le dinamiche. Le dinamiche sono il modo in cui noi agiamo all’interno di quell’area.

Abbiamo individuato tre dinamiche all’interno dell’area portfolio management: abbiamo stabilito come irradiamo informazioni (cioè il modo in cui gestiamo le informazioni relative ai nostri contatti e ai nostri clienti), come validiamo i clienti (il processo attraverso passiamo dal primo contatto fino al primo contratto J) e il ranking clienti (che è il nostro modo di valutare il rapporto che abbiamo con loro). Nell’area growth engine abbiamo invece identificato come dinamiche il nostro modo di attrarre i clienti (come facciamo in modo che vogliano lavorare con noi, dalla conoscenza alla fidelizzazione), la definizione di che cosa fa un business developer (il nostro modo di intendere l’accounting) e infine come diventare punti di riferimento (perché nei lavori che facciamo non siamo semplici fornitori ma vogliamo essere un reale motore di evoluzione e miglioramento). Infine nell’area relationship garden abbiamo individuato una dinamica soltanto, che però secondo noi già nel suo titolo dice molte cose: abilitare TUTTI a curare le relazioni.

La cura delle relazioni, anche se non è core business, è la parte delle attività che aiuta le imprese a ottenere la maggior parte del risultato. Per questo motivo abbiamo deciso che anche una digital company come la nostra deve avere come impegno prioritario quello di muoversi con coerenza e intraprendenza all’interno del proprio ecosistema di relazioni con obiettivo di maturare quelle esistenti e farne nascere di nuove. Il nostro modello di attrazione è la Gioconda: troppo ambiziosi?

L’entusiasmo, la paura e la contentezza

Stiamo facendo un percorso di straordinario, nel senso letterale della parola. Quella che abbiamo messo in campo non è un’attività ordinaria: non lo è per le organizzazioni, non lo è per le persone, non lo è nemmeno per il contesto e il territorio in cui viviamo e lavoriamo. Quando ci riuniamo per discutere insieme quello che stiamo facendo, ci sediamo in cerchio in un’unica stanza, è il nostro modo di “fare riunione”: possiamo vederci tutti in faccia e se i nostri occhi scorrono facendo una panoramica tra tutti i volti, gli sguardi che incrocia parlano di entusiasmo ma anche di paura, di voglia di farcela ma anche di timore di non riuscire, di cose concrete su cui lavorare ma anche di fantasie poco afferrabili. Siamo in una terra di confine: da una parte vediamo la nostra storia e il nostro lavoro consolidato, dall’altra l’orizzonte di nuovi modi di interpretare e praticare quello che sappiamo fare. Non sarà un percorso facile, ma la cosa bella di tutto questo è che di tutto questo noi siamo assolutamente contenti.

Disegnare un’impresa

Questo ed alcuni altri post che trovate su questo blog sono il frutto di un lavoro di narrazione che ho realizzato per un’azienda di software. 

Abbiamo disegnato un’impresa nuova partendo dalle nostre esperienze ma soprattutto dalle nostre visioni. Lo abbiamo fatto con un metodo che permettesse la partecipazione di tutti perché pensiamo che sia l’unica strada per poter ottenere i risultati migliori e far emergere personalità, entusiasmo e passione da parte di tutti. Qui vi raccontiamo come abbiamo creato la nostra opera d’arte.

Arte, genio e follia. Potremmo dire che sono questi i tre elementi su cui abbiamo deciso di costruire un’impresa innovativa. Abbiamo utilizzato l’arte, intesa come capacità creativa, per darci la massima libertà di espressione; il genio, per essere il più possibile originali; la follia, perché solo con il coraggio di fare una cosa fuori dal normale si può provare il vero brivido della creazione. Nell’immaginare l’impresa in cui poi vorremo lavorare, l’abbiamo costruita nelle sue parti fondamentali con un metodo aperto e condiviso: principi, attori, processi, flussi e dinamiche sono stati i nostri “ferri del mestiere” in un percorso di raffinazione per gradi continua che vi raccontiamo qui sotto: perché quello dell’artista non è un gesto isolato ma il frutto di una lunga elaborazione.

Come lavora l’artista che crea l’impresa.

Come si sa, dopo aver avuto la visione, si parte scegliendo la materia. Nel nostro caso si è trattato di individuare all’interno di ogni area core (governance, evolution, operation) quali fossero principi, processi e attori che la animavano: è un primo step che prevede una grande libertà di espressione grazie alal quale tentiamo di esplorare tutto ciò che sostanzia l’area. Siamo nella fase della massa informe che cerchiamo quantomeno di descrivere: sappiamo che da questi elementi nascerà poi la nostra opera.

Il secondo passo è stabilire e abbozzare il modo in cui gli elementi fondamentali si mescolano e interagiscno tra loro e come e quali di queste relazioni saranno per noi fondamentali: le chiamiamo dinamiche e sono il modo in cui la materia prende vita. Siamo nel momento in cui la materia si comincia a trasformare perché reagisce. L’ultimo passo è quello di stabilire i flussi, cioè decidere che strada far percorrere alle dinamiche perché producano dei risultati: è in questo momento che plasmiamo l’ossatura della nostra impresa regolando la materia che abbiamo affinché si trasformi nel risultato che vogliamo ottenere.

Governance, operation, evolution

Sono queste le tre aree fondamentali nelle quali abbiamo deciso come si muoverà la nostra impresa. Per ciascuna di queste aree abbiamo individuato le dinamiche fondamentali: individuiamo una dinamica nel momento in cui capiamo e decidiamo che quello è il modo in cui opera la nostra impresa.

Per l’area operation abbiamo individuato le dinamiche relative al project flow (la modalità di gestione dei progetti con i clienti), al planning (la programmazione di tutti i progetti dei clienti) e alla discovery (la modalità con cui analizziamo un cliente prima di proporgli la soluzione).

Per l’area evolution abbiamo individuato le dinamiche della partecipazione alle community (uno dei modi con cui entriamo in contatto con il contesto e cerchiamo contaminazioni), del flusso dell’innovazione (il modo con cui facciamo crescere le idee dando loro le gambe per sorreggersi), dell’attrazione di start-up e aziende (per conoscere nuovi partner) e dell’intercettazione di bisogni interni (sia personali che aziendali, per avere un monitoraggio continuo sullo stato di salute della nostra impresa).

Per l’area governance, le dinamiche che abbiamo individuato sono relative al valore generato e acquisito (qui stabiliamo come gestire il valore che produciamo durante il nostro lavoro con i clienti), al flusso delle attività (il modo in cui gestiamo il lavoro che dobbiamo fare) e il percorso della persona. Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza perché in esso si riassume il senso della nostra scelta di essere una open organization: abbiamo scelto di non avere una struttura classica se non per quelli che sono gli obblighi di legge. Sarebbe lungo da spiegare (questo lavoro di ricostruzione della nostra azienda dura già da un anno) e qui possiamo dire sicuramente due cose fondamentali. La prima è che l’azienda che vogliamo è aperta nella maniera più assoluta all’ingresso di chi ne vuole far parte (chiaramente con processi e modalità che abbiamo stabilito); la seconda è che non ci sono persone che hanno un ruolo per nomina, diritto acquisito o anzianità. Abbiamo scelto di definire esattamente il modo in cui ogni persona può muoversi all’interno dell’azienda dando il proprio contributo in ruoli diversi: per gestirla, curare un progetto o stabilire una strategia.

 

Le persone

Chi è il capo e quali caratteristiche deve avere? Ecco, questa è una cosa che nella nostra azienda non è scritta in nessuna lavagna, mansionario o organigramma. Perché quello che da altre parti si chiama (o fa chiamare) manager, da noi si chiamano persone. Tutte le persone che fanno parte della nostra azienda possono decidere strategie, clienti, prodotti e tutto quello che concerne la gestione complessiva di un’impresa. Siamo assolutamente convinti che la cosa migliore sia l’adozione di processi di governance inclusivi: significa che l’obiettivo non è quello di creare una gerarchia, ma di condividere quanto più possibile il processo decisionale e lasciarlo aperto a tutti. Le persone che stanno costruendo l’azienda con le loro “narrative” (il modo in cui ci si racconta e ci si confronta su come vorremmo funzionassero le cose), saranno le stesse che la gestiranno.

Cominciate anche voi a vedere l’opera che prende forma?

 

Costruire un’impresa è un’opera d’arte.

Questo ed alcuni altri post che trovate su questo blog sono il frutto di un lavoro di narrazione che ho realizzato per un’azienda di software. 

extrategy e Ideato da domani potrebbero diventare una cosa diversa, ma come quando si realizza un’opera d’arte, c’è l’idea ma il risultato finale lo si conosce solo quando il processo è concluso. Perché dare vita a una nuova realtà imprenditoriale in questo caso è un processo creativo particolare.

Che cos’è la creatività? Non è una domanda retorica ma è quella che bisogna farsi in casi come questo in cui l’approccio al business è affrontato in maniera del tutto innovativa. La creatività secondo noi è fantasia e concretezza al tempo stesso. È architettura analitica unita a libertà di immaginazione. Su questo doppio binario, solo all’apparenza divergente, corre il treno sul quale viaggiano extrategy e Ideato. Si tratta di un processo creativo fondato su di una tecnica ben precisa, che ha previsto settimane di lavoro e di preparazione per completare l’opera. Abbiamo una visione, un metodo per renderla operativa e anche una strategia per farla diventare un successo. In mezzo c’è tutto il resto: le nostre passioni, i nostri valori, il modo che abbiamo di lavorare e la scelta di farlo attraverso un sistema open, con la partecipazione di tutti.

La visione

Un quadro, una scultura, un’opera d’arte in genere non nascono dal nulla o dal semplice e mero gesto creativo di un artista. I più grandi pittori della storia realizzavano uno o più bozzetti di quello che sarebbe poi diventato il dipinto finale (d’altra parte, la creatività ama i vincoli). Anche in questo caso, in cui gli artisti in campo sono per la maggior parte programmatori (e qualche addetto all’amministrazione), esiste una bozza su cui poggiano il loro lavoro. Noi la chiameremo visione. Non si tratta di un termine soltanto di carattere economico e strategico. La visione in questo caso incorpora e riprende concetti molto più ampi di quelli che appartengono alla vita dell’impresa: dentro ci sono temi come l’evoluzione tecnologica e metodologica (non importa solo crescere, ma anche come si cresce), l’evoluzione personale (ricordate? Al centro ci sono sempre le persone), un modello sociale (che vada oltre il modello di business!), la partecipazione (e questo incontro ne è la testimonianza), l’attrazione delle persone giuste (perché partner e collaboratori si scelgono sulla base della condivisione di valori). La nostra visione è il fulcro attorno a cui ruota tutta l’impresa, su cui poggiano i principi guida, i nostri valori fondanti e la nostra lettura delle opportunità che il sistema in cui ci muoviamo ci offre. Avere una visione non basta così come non basta avere un’idea: è solo l’inizio, indispensabile, per cominciare. Abbiamo scelto un metodo per

 Il metodo

Incrociando gli occhi della cameriera che sta preparando il bar prima del pranzo di questa prima giornata di incontri, capisci dal suo sguardo che lo stupore è quello di chi, da fuori, fosse messo ad osservare questa strana reunion aziendale: gruppi di persone che parlano, poi alcune si spostano, entrano ed escono dalle discussioni in modo del tutto arbitrario, almeno all’apparenza. Ma quello che succede qui non è così strano per chi lo sta vivendo: il metodo proposto da Cocoon Projects, che accompagna questo percorso di incontro tra extrategy e Ideato, prevede che la discussione tra tutti i partecipanti sia ispirata al principio di libertà di partecipazione alle discussioni. Funziona più o meno così: c’è il tema (area core), chi vuole discuterlo partecipa con l’imposizione di smettere e cambiare quando capisce di non riuscire più a dare un contributo. Un meccanismo che presuppone una grande fiducia reciproca, elemento essenziale che caratterizza tutta la gestione dell’impresa che qui stiamo cercando di creare.

I gruppi tra cui si muovono tutte le persone di Ideato ed extrategy sono focalizzati su tre aree core dell’azienda (forse di ogni azienda): governance (gestione), operations (funzionamento operativo), evolutions (sviluppo). Alla fine di ogni round c’è la plenaria che serve ad allineare le informazioni e a scambiarsi feedback. E poi di nuovo a lavorare per gruppi. Così via fino a modellare mano a mano tutte le parti che abbiamo deciso essere le più importanti. All’occhio esterno può sembrare un’operazione di continua aggiunta di pezzi, di contenuti che si moltiplicano, di una mole di lavoro enorme. Invece, anche qui, torniamo all’arte perché quello che facciamo ha sempre a che fare con qualcosa che va oltre l’organizzazione tecnica di un’impresa. Scriveva Vasari che “La scultura è una arte che levando il superfluo dalla materia suggetta, la riduce a quella forma di corpo che nella idea dello artefice è disegnata”. Ecco, la nostra nuova impresa nascerà da un’operazione certosina e raffinata di continuo togliere il superfluo per ricondurre tutto all’essenziale, all’agile, allo stretto necessario per poter mettere tutti nella condizione di lavorare al meglio.

Cosa stiamo facendo?

Disegniamo una nuova impresa basandola su quello che ci sta più a cuore e su ciò che crediamo possa portare maggiore valore. Lo facciamo individuando quelle che abbiamo definito dinamiche chiave, attività secondo le quali la nostra impresa costruisce il proprio business e la sua stessa identità perché esprimono non solo cosa facciamo ma anche come lo facciamo. Descriviamo le dinamiche attraverso i flussi, che sono le modalità di funzionamento delle dinamiche. Individuiamo titoli e ruoli perché sappiamo che sono poi le persone a mettere in movimento tutto quanto. Costruiamo una struttura che però è flessibile, o meglio, adattiva: significa che può muoversi e adattarsi all’ambiente in cui si muove, agli altri soggetti che incontra, alle circostanze che le capitano. Stiamo lavorando ad un’opera che sarà viva perché in grado di trasformarsi nel tempo in maniera veloce ma prevedibile; siamo molto più interessati alla sua evoluzione che non al suo stato attuale. Pensiamo che questo sia il modo migliore per dare vita a un’impresa che sia in grado di evolvere continuamente, crediamo che questo sia l’unico modo per di creare qualcosa che riguardi il futuro e non il passato.

Le aziende del futuro saranno diverse dal passato non per le loro dimensioni, ma per la forma che sapranno prendere. Per questo ci siamo concentrati nel costruire un’opera d’arte.

 

Quando le persone creano valore

Questo ed alcuni altri post che trovate su questo blog sono il frutto di un lavoro di narrazione che ho realizzato per un’azienda di software. 

Che cosa succede quando due aziende si incontrano? Se decidono che si piacciono come fanno a rendere il loro incontro un caso di successo? Questa è la storia di un incontro tra business, passioni e soprattutto belle persone. Questa è la storia di extrategy e Ideato e di come il loro sarà un caso di successo.

Immaginate di partecipare ad un incontro di due aziende il cui core-business sia la programmazione software, il coding. Ecco, ora siete all’ingresso di un bell’albergo del centro Italia, con un gruppetto di programmatori che discutono tra loro: questo è quello che mi è capitato in un caldo lunedì di fine luglio. Più che capitare, è quello che ho scelto quando ho accettato di raccontare, a modo mio, la storia dell’incontro tra extrategy e Ideato, due aziende che si occupano di sviluppo software.

A dir la verità, nei primi cinque minuti dell’incontro non ho capito granché: “ico” (semmai si scriva così), “prima del wallet”, una serie di slang sparati a raffica di cui ignoravo totalmente il significato. Nella prima ora le cose sono peggiorate ed ho avuto seri dubbi su che cosa facessi lì e, soprattutto, avrei potuto combinare di buono per loro ed anche per me. Mentre sto scrivendo, passato il primo pomeriggio, avrei invece voglia di non andare più via. Chi sta leggendo si chiederà perché nel racconto di quella che all’esterno può sembrare una fusione aziendale (giuro che non utilizzerò più questo termine), mi sia messo a descrivere sensazioni, emozioni e accadimenti che riguardano le relazioni, lo stato d’animo, la pancia (o il cuore) più che la testa. I motivi sono due: il primo riguarda il modo con cui ho deciso di raccontare questa storia, il secondo il perché questa storia nasce e si sviluppa.

Secondo post

Il primo: la sensazione prima di smarrimento, confusione e poi di passione e attaccamento descritta poco sopra, è la stessa che ho (e ho avuto) ogni volta che sono entrato in un museo o in una galleria di arte. E a me piaceva raccontare quello che stava succedendo come se fosse un’opera d’arte perché penso sinceramente che quello che ho intravisto e che vedrò ancora meglio più avanti abbia a che fare con l’arte, con le cose belle e anche con quelle che alla fine ci fanno sentire bene; non è, in effetti, una questione di numeri questo incontro, ma di feeling (anche se detto così può sembrare ruffiano, vi assicuro che è quello che si respira).

Il secondo è che il processo con il quale queste due realtà si sono incontrate e con il quale decideranno di fare della strada insieme, è tutto fondato sulle persone. Non si sono incontrati i due CDA delle imprese, non c’è stato un briefing tra consulenti e proprietà, non c’è un calcolo finanziario dietro tutto questo. Semplicemente (ma per certi versi anche in maniera molto complicata) ci sono oltre 30 persone, tra le due aziende, che si confrontano, pongono questioni e propongono soluzioni, fanno progetti e immaginano soluzioni per il proprio futuro e quello delle imprese in cui lavorano. Da questo percorso non è stato escluso nessuno, tutti partecipano indipendentemente dal ruolo e dalla funzione che rivestono in azienda: tutti lo fanno con grande spirito di partecipazione, forte determinazione, grande coinvolgimento. Tutti lo fanno pensando alla propria impresa.

E quando uso il termine “propria” non ha nulla a che fare con la proprietà in termini giuridici, ma con il senso profondo di appartenenza, condivisione e sviluppo che tutti dimostrano di avere. Quello che ho visto e che proverò a raccontare è come queste persone saranno in grado di creare valore, come le loro relazioni e interazioni possono dar vita a qualcosa che va oltre l’organizzazione. Nelle loro parole, nei loro gesti e nei loro visi c’è un pezzetto del futuro della loro impresa. E forse di tutte le imprese che vogliono crescere.

 

Per vedere le foto clicca qui http://bit.ly/idexfotobox 

 

Identità digitale

Lo scorso fine settimana ho scoperto uno strumento simpatico per calcolare la rilevanza della propria identità digitale. Più indicato per chi è alle prime armi, piuttosto che per chi è un utilizzatore professionale degli strumenti digitali (social media, blog, ecc.).

On line ID calculator è basato sulle ricerche Google e chiede di rispondere a 10 semplici domande per fare una stima della propria rilevanza digitale. In realtà la disamina, perlomeno nel contesto italiano, forse è un po’ superficiale. Però può restituire indicazioni interessanti. Anche perché offre alcuni spunti su come lavorare e aggiustare il tiro qualora la propria “impronta digitale” non sia così performante.

Quando avrete risposto alle domande, On line ID calculator posizionerà il vostro brand all’interno di un quadrante su cui sono rappresentati volume e rilevanza della vostra presenza on line: i quadranti in cui potreste posizionarvi sono “digitally disastrous” (molta presenza ma poco qualificata), “digitally dissed” (poca presenza e poco qualificata), “digitally dabbing” (poca presenza ma molto qualificata), “digitally distinct” (molta presenza qualificata).

Il sistema vi da anche dei consigli che riguardano la “purezza” (quanto i risultati on line rappresentano in maniera coerente il vostro brand),  la “diversità” (la varietà di piattaforme su cui siete presenti e la varietà di contenuti con cui lo siete), la “credibilità” (cioè quanto i risultati che vi rappresentano lo fanno in maniera buona).

A cosa serve uno strumento come questo? Dal mio punto di vista, come accade (o forse è meglio dire come è accaduto) con Klout, ad avere un benchmarking delle proprie attività online. Sconsiglio di mettersi a paragonare il proprio risultato con quello degli altri (a mo’ di gara) oppure di utilizzarlo come indicatore (quasi) unico della professionalità di un soggetto.

La prova la possono fare professionisti ed anche aziende e organizzazioni: quello che si può misurare è un brand nel senso più lato possibile. Personalmente ho fatto la prova e il distintivo che ho ottenuto è quello qui sotto. 🙂

 

 

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