Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Più sei piccolo, più deve essere consistente

Il titolo di questo articolo mi fa un po’ vergognare perché, lo ammetto, ha quell’allusione da comicità pecoreccia che di solito non mi piace affatto. Chiaramente il tema non è “quello”, ma qualcosa che sta molto di più nelle mie corde: i contenuti (consistenti) nella comunicazione.

Mi è capitato recentemente, più spesso del solito, di sentire dinamici creatori di contenuti, social media manager, addetti alla comunicazione (e non solo) affermare con una certa sicurezza che “tanto la gente non legge, non vale la pena scrivere tanto“. Mi permetto di dissentire e di spiegarlo con quelle che ritengo motivazioni plausibili.

La “gente”. Innanzitutto diffido di tutte le sentenze che hanno come soggetto attivo questo nome comune indefinito che, di fatto, quando viene usato (oralmente o per scritto) è uno dei primi segnali delle generalizzazioni che vanno bene quasi per tutto e per niente. “La gente” è qualcosa di indefinito, lontano (quasi mai chi lo usa se ne sente ricompreso) e spesso avverso (la gente è sempre quella che sbaglia). Credo che per comunicare qualcosa in maniera efficace, elaborare un contenuto che possa essere letto (visto o ascoltato) sia più fruttuoso immaginarci un “noi” oppure costruire o immaginare da chi sarà composto il pubblico a cui vorremmo dire qualcosa.

Leggere e ascoltare poco. Siamo proprio sicuri che questa sentenza sia vera sempre e comunque? A me pare più vicino alla realtà un altro diverso presupposto. La quantità di contenuto fruito, in termini di profondità e non di diversificazione, credo che dipenda da almeno un paio di variabili. La prima è rappresentata dalla tipologia di fruitore: non solo dati anagrafici (della serie i “vecchi” leggono di più e i “giovani” non leggono, che poi non è nemmeno così vero), ma anche stili e abitudini di vita nonché il percorso con il quale l’utente entra in contatto con il contenuto prodotto. La seconda riguarda il contesto (quali sono i contenuti, in che ambito li diffondiamo, che brand stiamo proponendo se si tratta di comunicazione legata al marketing) e il valore del contenuto (o del prodotto): se sto proponendo un contenuto per il quale a chi ascolta è richiesto un investimento (in tempo, in denaro o altro), credo che la quantità di informazioni da distribuire aumenti in proporzione. Per portare qualcuno a interessarsi all’acquisto di un auto siamo sicuri che basti un video divertente di 30 secondi?

Livello di attenzione. E veniamo alla questione su cui concordo rispetto all’efficacia di una comunicazione veloce e superficiale. Ormai da tempo la soglia di attenzione dell’utente medio su web (o l’attenzione media su web) è attestata su livelli da pesce rosso (come recita una leggenda circolata per anni), cioè molto bassi: lo scroll è frenetico e incessante e quindi la presunta bravura sarebbe quella di far fermare per qualche secondo in più a “riflettere” l’utente sul contenuto che proponiamo (una sosta in ogni caso disinvolta e sfuggente). Si tratta, a mio avviso, di una fase (la prima?) della comunicazione on line e forse, in qualche caso, nemmeno della più importante. Può essere vero che a un basso livello di attenzione corrisponda una comunicazione veloce e superficiale, ma se vogliamo intercettare anche un livello di interesse (alto o basso che sia), dobbiamo restituire qualcosa che alimenti e soddisfi quell’interesse. E se vogliamo rimanere nel marketing, credo che i potenziali clienti siano quelli che hanno interesse in quel che diciamo e non solo una rapida e fugace voglia di divertirsi. 

A me pare, per tornare al titolo pecoreccio, che l’investimento sull’elaborazione di contenuti un po’ più corposi a fianco di quelli più leggeri, sia ancora più necessaria per realtà piccole e locali, per quei brand che non sono ancora del tutto riconosciuti (e qualche volta nemmeno conosciuti): in questi casi la lotta per catturare l’attenzione sfuggente degli utenti rischia di essere dispendiosa e poco proficua. Sarebbe meglio, a mio avviso, concentrare l’attenzione, attraverso i contenuti, sulla costruzione della propria identità di marca (a proposito, tra qualche settimana se ne parlerà al Brand Festival), sulla definizione della proposta di valore, sulla soddisfazione delle richieste degli utenti che dimostrano interesse.

Meno attenti, meno competenti

Non so se viviamo, come dice qualcuno, in una società di distrazione di massa. Mi limito ad osservare quello che accade nei luoghi di lavoro (in senso lato di contesti) in cui mi trovo. Quello che osservo è un progressivo, più o meno lento, calo della competenza e della conoscenza di temi e contenuti a causa della distrazione a cui ci conduce “l’internet” (come direbbero gli Elio e le Storie Tese).

Il tema è quello della pluralità delle fonti (che chiamerò così per correttezza professionale, ma che potrei definire gergalmente “la mondezza nei social”) e della bolla informativa (anche qui: pigrizia conoscitiva, se nessuno si offende): lo schermo digitale, che da tempo è una dinamica finestra sul mondo, ci illumina (o abbaglia?) con una quantità quasi infinita di notizie, commenti, contenuti tanto da farci perdere, a volte, la certezza di quello che conosciamo.

Se è pur vero che la conoscenza è per sua natura un contenitore senza fondo e che possiamo (forse dovremmo) trascorrere la vita a imparare sempre cose nuove, è altrettanto verificabile che la maggior disponibilità di contenuti non ci permette sempre di guadagnare in “virtute e conoscenza” (scusate, ma è pur sempre l’anno di Dante). Qualche indizio. Verificando la cronologia del browser, quanto è diversificata, nel medio e lungo periodo, la tipologia di link? Delegando a un’apposita app il monitoraggio, che valori si registrano nell’utilizzo di social media (o di un solo social media)? Lavoro (anche) in un posto dove ormai molti anni fa si leggevano i giornali per documentarsi; ora sono stati sostituiti da fonti web ma mi chiedo: di eguale autorevolezza (attualizzata) e profondità (intesa anche come tempo dedicato)?

Abbiamo iniziato a produrre contenuti dimenticandoci quanto questo, in teoria, comporti studi, impegno, energie e tempo per elaborarli. Il click per pubblicare è facile, lo smartphone scatta belle foto (o ha l’app giusta per farle sembrare tali), condividere è un passaggio semplice e fare tutto questo non costa fatica. Credo che la fatica ci farebbe pensare. Credo che la velocità abbia fatto perdere la solidità. Una delle conseguenze, ritengo, è che così facendo perdiamo anche in competenza in ciò che ci facciamo: fermandoci alle prime apparenze non destiniamo le giuste risorse per costruire le nostre competenze. Rischiamo di essere superficialmente (in)competenti su troppi versanti per poter affermare di essere realmente espert* di qualcosa.

“Panta rei”, tutto scorre. Ma il flusso informativo è molto meno filosofico del pensiero di Eraclito secondo cui il divenire ci impedisce di vivere la stessa esperienza due volte. Lo abbiamo tradotto in un lascivo ed effimero “senso di fretta” privo di orientamento. Gli inglesi, nella comunicazione, ammoniscono “less is more”: credo che abbiamo bisogno di fare (scrivere, pubblicare, commentare, produrre) meno per avere e essere “di più”.

5 consigli per fare le presentazioni

Nell’era digitale la frase “fare le presentazioni” si arricchisce di un significato: se nella lingua comune significa presentarsi l’un l’altro, oggi vuol dire soprattutto preparare delle slide. Per cui chi fa le presentazioni non è l’ospite di una serata ma qualcuno che deve tenere uno speech, una conferenza, un seminario, un corso. E se per fare le presentazioni alla vecchia maniera servivano gentilezza e diplomazia, per quelle al pc che cosa serve?

Con un po’ di esperienza nel settore (tutto learning by doing) provo a mettere a fuoco quelli che secondo me sono aspetti fondamentali. Fare le presentazioni è innanzitutto un lavoro di strategia più che di distribuzione dei contenuti: bisogna fare attenzione a quel che si dice, a come lo si dice e alle reazioni che si vogliono suscitare (ricordo, stupore, memoria, meraviglia…). Ecco 5 consigli utili:

Utilizzare un software con cui si ha dimestichezza: per realizzare presentazioni efficaci imparate ad utilizzare un software con il quale potete muovervi bene. Non importa che sia all’ultima moda o che abbia effetti sconvolgenti: a vincere saranno sempre i contenuti e se questi sono orginali ed efficaci il prodotto finale può tranquillamente essere un PDF (anzi, spesso è il formato migliore per essere il più possibile condivisibili e utilizzabili su piattaforme oin line e sistemi di proiezione)

Le parole sono importanti, ma le immagini creano entusiasmo: trovate le parole giuste, siate sintetici, fate in modo che le frasi che utilizzate (mai piùdi tre o quattro per slide) siano studiate per avere l’effetto “on” sul cervello di chi vi ascolta. Utilizzare metafore semplici e legate alla vita quotidiana è un buon modo di catturare l’attenzione. Scegliete con cura le immagini: siate maniacali e, soprattutto originali nella scelta e nella combinazione con le parole (no, le prime immagini di Google non vanno bene). Nel mio ultimo libro ci sono suggerimenti importanti anche per questo

Tempo al tempo: quanto durerà la vostra presentazione? Calibrate il numero di slide nel tempo che vi è stato assegnato. Se ne farete troppo poche sembrerà che non avete argomenti o che siete poco preparati; se ne fate troppe darete l’impressione di aver saltato argomenti importanti. Una volta realizzate le slide provate a presentarle a qualcuno (specialmente le prime volte) e cronometratevi. Se vi piace parlare state stretti con il numero delle slide, se siete ansiosi aggiungetene qualcuna.

Curare l’audience: sembra una cosa banale ma ricordatevi che non state parlando a voi stessi. Sono ancora troppi gli speaker e relatori che si parlano addosso, che si compiacciono di quel che dicono, che non ascoltano il pubblico e il suo umore. Finite le slide pensate ad una presentazione che vi ha annoiato o che avete trovato poco efficace: se la vostra gli assomiglia troppo cambiate qualcosa (errori più frequenti: troppa roba scritta, immagini scadenti come clipart, nessun riferimento pratico o personale).

Seguire un percorso (bella storia): le cose che ascoltiamo più volentieri sono le storie (le favole insegnano). Create attraverso le slide una trama  e seguendo un vecchio consiglio utilizzate il copione che dice di: dire quello che direte, dirlo, dire quello che avete detto. In altre parole: anticipate un indice dei contenuti che esporrete, esponete i contenuti, fate un riassunto finale.

Dopo questi consigli se qualcuno volesse vedere qualche esempio pratico questo è il mio profilo su slideshare in cui ho raccolto le mie principali presentazioni (e se ci fate caso quelle più vecchie sono molto diverse da quelle più recenti). Se fate una presentazione dopo questi consigli, segnalatemela! Spero di poter assistere: sarà un piacere ascoltarvi!

 

No more guru

Volevo iniziare questo post con quelle frasi tipo “viviamo tempi in cui…” oppure con quelle domande retoriche come “chi vi può aiutare a…”. Poi mi sono fermato perché la cosa, oltre che essere abusata, era poco coerente con quello che voglio esprimere. Il mio pensiero è questo: è tempo di smettere di cercare un guru che ci “illumini” per ogni cosa che dobbiamo fare.

Permetto che la mia impressione, lo ammetto, è fortemente condizionata da quel che vedo scorrere nelle timeline dei social network che utilizzo. Però, mi capita sempre più spesso di vedere l’esaltazione di personaggi e “pensieri guida” che dovrebbero essere considerati profeti del nostro tempo. Spesso quelli che dovrebbero o potrebbero essere pensieri, idee, considerazioni personali vengono assunti come regole, comandamenti, verità assolute.

Non c’è niente di male nel condividere un pensiero che coincide con la nostra visione del mondo, le nostre sensazioni, il nostro stesse sentire. Tutto sta nel vedere se quel pensiero è davvero nostro e lo abbiamo riconosciuto nelle parole di qualcun altro, oppure ci ha catturato perché è stato esposto bene (e magari anche perché su certi temi noi un’opinione proprio non ce l’avevamo e abbiamo sposato quella più convincente). Faccio un esempio che reputo abbastanza vicino a quello che intendo. Anche io apprezzo Gramellini su La Stampa, ma non credo che la sua rubrica “Buongiorno” rappresenti la verità ogni giorno. Ho la sensazione che invece le sue parole, per quanto sempre ben articolate e fondate, siano considerate con un trasporto eccessivo (per usare un eufemismo). E, attenzione, quel che intendo nulla ha a che vedere con la bontà o meno di quanto esposto.

Mi verrebbe di chiamarla “sindrome da guru“: un insaziabile bisogno di avere certezze, di trovare un ancora a cui aggrapparsi, un faro illuminante. Un desiderio che nel nostro tempo è esaltato e trova uno scenario adatto nei social media e nelle altre piattaforme di condivisione. Ho l’impressione che la continua ricerca di un punto di riferimento possa trasformarci da assetati di conoscenza (se mai lo siamo stati) a babbei utili per l’esaltazione di qualsivoglia causa.

Credo invece che non sempre abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che cosa fare. Ho idea che potrebbe essere arrivato il momento di conquistare un po’ più di autonomia di pensiero, giusto o sbagliato che sia. Proviamo a smettere di rivolgerci a chi ci spiega come fare. Facciamolo e basta. Facciamo come abbiamo imparato. E se non abbiamo imparato abbastanza, torniamo a studiare. Ma, vi prego, no more guru.

 

Calma ed entusiasmo

Torno a scrivere sul blog quando ci sono cose che mi sembrano possano essere condivise con qualche interesse (reciproco). Nonostante le intenzioni questo avviene con una frequenza minore rispetto a quello che mi piacerebbe. Me ne faccio una ragione, in virtù del fatto che, di converso, sto lavorando a molte cose che mi entusiasmano. Una fra queste è un altro libro edito da Hoepli che si occuperà proprio di blog (ecco, così l’ho scritto anche qui).

Voglio condividere questa riflessione: la calma e l’entusiasmo possono essere due facce della stessa medaglia? Mi spiego meglio. I social media che ormai frequentiamo con assiduità e sempre maggior costanza pullulano di “news”: da lì arrivano un sacco di novità strabilianti soprattutto da sedicenti pionieri dei più svariati argomenti. Quello che noto è una specie di agitazione e ansia da prestazione generalizzata:  deve esserci in corso una sorta di gara a chi porta per primo l’ultima novità. Ho idea insomma che il mondo digitale sia sottoposto ad accelerazioni improvvise (che non sempre fanno bene).

Per farmi meglio capire con qualche esempio: non abbiamo nemmeno fatto in tempo a capire tutti che cosa fosse il personal branding che è già maleducazione dirlo; stavamo ancora lì a vedere di fare storytelling quando invece dovevamo già essere pronti per la content curation; l’inbound marketing era qui un attimo fa, ma tra poco non lo vedi più nemmeno dietro l’angolo. Perdonate la grossolanità del tutto. So benissimo che dietro a questi termini, in realtà, ci possono essere (e ci sono) tematiche importanti. Non è quello su cui discuto.

Semmai vorrei essere critico sul modo e la velocità con cui vengono date in pasto al pubblico (di settore e non solo). Non è che qualche volta lo si deve fare per apparire nuovi piuttosto che per portare un contenuto originale? Credo, ma potrei sbagliarmi, che ci sia un generale, innaturale e ingiustificato entusiasmo per delle piccole, banali e trascurabili cose. Pur interessandomi di questi temi e cercando di stare al passo coi tempi, quello che non riesco a sposare (in senso figurato) è l’eruzione continua ed incessante con cui ogni giorno nascono novità (che se poi vai a vedere bene molte non sono nemmeno così nuove).

A me piacerebbe che il tutto fosse condito con una puntina di calma zen, ma proprio un pizzico. Sballottarci da una parte all’altra, peggio ancora se alla ricerca di continue conferme, non ci fa bene. Calmiamoci. Calma ed entusiasmo possono essere due facce della stessa medaglia che si chiama equilibrio. Oooooṃm!