Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Chi ben comunica, è a metà dell’opera

Chi di voi qui sopra, scorrendo velocemente, ha letto “comincia” anziché “comunica” non lo sa ma mi ha fatto un gran piacere. Perché anche questa è una caratteristica della comunicazione: chi legge tende, involontariamente, ad economizzare il più possibile. Il nostro cervello associa immediatamente le prime lettere ad eventuali parole già memorizzate in modo da restituire più velocemente il risultato. Come viene dimostrato da quel giochino nel quale riusciamo a leggere un testo anche se tutte le parole sono scritte male (provate qui). Ed una cosa analoga avviene con i concetti: avete presente la frase “non si ha mai una seconda occasione per fare la prima buona impressione“? Il concetto è lo stesso.

Questo tipo di “incomprensione” se stupisce e diverte il lettore dovrebbe invece in qualche modo preoccupare chi scrive o, più in generale, comunica: siamo proprio sicuri che i contenuti che vogliamo trasmettere arriveranno integri e ben compresi? Completamente tranquilli che questo accada forse non lo possiamo mai essere. Ma una cosa la possiamo fare: mettere a punto una strategia comunicativa efficace che, come un meccanismo ben rodato, lasci pochissimo o nessun spazio alle incomprensioni, ai malintesi, agli errori di valutazione. Nelle slide che ho presentato di recente ad un corso di formazione ho scritto che Ulisse se la sarebbe cavata benissimo con Polifemo anche se lo avesse incontrato sui social media. Il ciclope accecato gridava che “Nessuno” lo aveva colpito e così l’astuto Ulisse se la poté scampare agevolmente: astuto ma anche grande stratega Ulisse, considerato che tutta la scena se l’era immaginata ben prima per poter avere la meglio. Chiaramente il senso della storia non è che è meglio dare un nome falso (ma va?). Quello che mi pare interessante è che quando comunichiamo, sul web in particolare, dovremmo armarci di un po’ dell’astuzia di Ulisse.

Quale astuzia potremmo adottare da parte nostra? Quali scelte possono essere lungimiranti? Quale può essere una strategia efficace? Un gustosissimo libro che ho da poco letto si intitola “Steal like an artist” (a proposito: l’aggettivo “gustosissimo” l’ho copiato da Luca Conti, che mi ha passato dritta e libro, grazie!) ed è un invito più che esplicito a fare quello che già da tempo suggerisco anche io: copiare! In realtà spesso suggerisco di fare un percorso un po’ diverso: copiare, RIELABORARE, incollare. La parte centrale, la rielaborazione, è quella più importante perché è il momento in cui riusciamo a caratterizzarci, ad essere originali, a mettere noi stessi in quello che stiamo facendo. Questo, anche nel mondo della comunicazione, è essenziale. Quali sono gli elementi di un buon “furto” o, come piace chiamarla a me, di una buona rielaborazione? Il libro di Austin Kleon ne cita diversi ed io qui ne riprendo alcuni che mi sembrano fondamentali: lo studio (per copiare bene dobbiamo prima osservare ed analizzare profondamente), la capacità di trasformare (non è una mera traslazione ma una ispirazione profonda), la capacità di mescolare (più sono i modelli che seguiamo più saremo in grado di creare qualcosa di originale ed unico).

Possiamo scegliere un modello che è un mito (come Ulisse) oppure qualcuno che realizza ciò che ci piace meglio di noi, l’importante è che ci ricordiamo che niente è originale così come tutto può esserlo: dipende da quanta parte di noi stessi decidiamo di mettere in quello che comunichiamo, in quello che creiamo.

Gioconda "copiata" (Madrid, attribuita ad autori diversi)

Gioconda “copiata” (Madrid, attribuita ad autori diversi)

Meraviglia!

Quante volte vi capita di stupirvi? E quante volte lo stupore è uno stimolo, un incentivo a fare cose diverse e più entusiasmanti? A me è capitato di stupirmi (ma forse sono un po’ “facile” da questo punto di vista) partecipando alle TEDxBologna 2013, una serie di talk dedicati alle innovazioni esponenziali. La mission delle TED è quella di diffondere le idee, quelle che meritano di essere diffuse chiaramente (ideas worth spreading). Ecco, io mi sono stupito fino ad esclamare “meraviglia!” quando ho ascoltato gli speech e già dopo i primi due ero sbalordito. E credo che questo mi abbia fatto bene, mi abbia regalato una ricchezza che posso riutilizzare. Faccio tre esempi, tre volte in cui, dentro di me, ho esclamato: meraviglia!

Meraviglia!” quando ho capito una cosa che tutti facciamo fatica a capire: la legge di Moore (sulla crescita esponenziale) non riguarda solo l’informatica. Da quando la tecnologia tocca tutti i campi della conoscenza dobbiamo entrare nella logica secondo la quale l’evoluzione esponenziale può riguardare qualsiasi aspetto della nostra vita quotidiana. Quello che vediamo oggi potrebbe essere stravolto in men che non si dica, quello che oggi pensiamo impossibile potrebbe essere realtà tra pochi anni. Per esempio: lo sapete che un robot sorridente ed auto-apprendente sta “crescendo” proprio “dietro casa”? Si chiama iCub, si muove, sorride, interagisce.

Che viviamo in una rete (interconnessa) lo sappiamo tutti. Ma sappiamo anche che stare al centro della rete potrebbe non essere così bello, piacevole, interessante? Guido Caldarelli, esperto di reti complesse, ha raccontato una bella storia che mette insieme i bambini, i telefoni cellulari, le foche e i merluzzi.: meraviglia! La morale della storia è che nei sistemi di rete complesse (o a invarianza di scala) non sempre le azioni razionali provocano le reazioni che ci si attende, quelle logiche (almeno ad una prima istanza). Per esempio non è detto che in un ecosistema eliminando i predatori il numero dei predati aumenti: potrebbe accadere come nel caso delle foche e dei merluzzi che il risultato sia esattamente il contrario, eliminando i predatori scompaiono anche i predati.

Meraviglia è anche divertirsi ma per farlo bisogna essere molto concentrati, attenti, preparati. Christian Zoli ha chiesto di provare a vedere che faccia ed espressione ha un bambino che gioca. E poi: quando è l’ultima volta che ci siamo divertiti lavorando o, meglio, che il nostro divertimento è diventato un lavoro? La verifica potrebbe non essere così positiva per molti di noi. Questo perché spesso il lavoro è una faccenda a cui dedichiamo molto tempo ma poco coinvolgimento: dovrebbe essere un gioco e forse lo è ma c’è qualcosa che non va. Questo qualcosa che non va sono le regole. Per cui, l’unica possibilità che abbiamo per farlo diventare coinvolgente è cambiare le regole. Quali sono le regole di un gioco divertente? Obiettivi chiari, feedback costante, sfide bilanciate, interazione sociale, sensazione di controllo, predisposizione all’errore (sbagliare significa imparare), senso di miglioramento (i task ripetitivi sono noioso, meglio eliminarli).

Perché è importante stupirsi? Secondo me perché quando ci stupiamo ci siamo veramente aperti al nuovo, abbiamo tolto resistenze e pesi della routine che troppo di frequente ci mette su binari obbligatori; perché ci pare di poter vedere oltre il solito orizzonte; perché ci sembra che con quel che abbiamo visto, ascoltato, sentito possiamo davvero cambiare qualcosa, migliorare la nostra vita. Perché possiamo distrarre per un attimo la nostra amigdala e concentrare tutta la nostra energia in un’innovazione esponenziale: meraviglia!

meraviglia

Un gran bel posto dove lavorare

Esiste una classifica che si chiama Great Place to Work frutto di un contest in cui le aziende si sfidano per conquistare un posto in cima alla lista dei migliori ambienti in cui lavorare. Le parole più utilizzate nel descrivere i segreti per divenire uno dei posti più ambiti in cui lavorare sono: dialogo, trasparenza, attenzione, esigenze, fiducia, orgoglio, persone, crescere, equilibrio, sostenibilità. Sostanzialmente, da questa sorta di brainstorming, sembra che l’obiettivo sia quello di andare a lavorare e “sentirsi come a casa”.

In un libro di qualche tempo fa (era metà degli anni novanta) il sociologo Domenico de Masi sviluppava un concetto che mi colpì molto: l’ozio creativo. Pensato per leggere al meglio una società in cui lavoro, tempo libero, passioni personali e stile professionale si mischiano in continuazione è divenuto una chiave di lettura più ampia, anche all’interno della gestione delle risorse umane. Sembra che le aziende, qualche anno più tardi (il premio è alla sua undicesima edizione), lo abbiano fatto proprio: asili aziendali, servizi fuori dal core business offerti ai dipendenti, benefits personalizzati, sistemi di valutazione partecipati sono alcuni degli strumenti con cui le imprese cercano di coinvolgere il personale. Nel senso doppio del termine, sostantivo ed aggettivo. Il personale non è quindi solo l’insieme delle persone impiegate in un’organizzazione, ma anche qualcosa che ha a che fare con il giudizio, la valutazione, i gusti e le esigenze di ciascuno. L’azienda cerca di allacciare un dialogo personale, non collettivo.

Fine ultimo è un coinvolgimento che possa portare ad un maggiore efficienza generale, alla ricerca dell’eccellenza in tutti i settori, a favorire l’empowerment  personale e, da ultimo, ad una maggiore produttività. Questa nuova modalità di vedere il rapporto di lavoro in maniera più fluida (come fosse l’incontro di forze creative pronte a cooperare) deve anche portarsi dietro una maggiore responsabilizzazione dei singoli affinché possano essere pronti a siglare questo nuovo patto con la propria azienda, fissando obiettivi e limiti. Per passare dall’ufficio alla comunità non bastano soltanto un insieme di regole e best practices.

 

We know-how

L’onda lunga del paradigma “social” arriva anche in impresa. Le regole che la Weconomy riscrive per la gestione di impresa sono tutte all’insegna della collaborazione, della condivisione, della socializzazione. Sono spunti interessanti quelli che escono da un’analisi di questo tipo fatta dai manager del settore terziario (per avere qualche pillola si può ricercare l’hashtag #weconomyday su Twitter).

Non tutti rappresentano una novità assoluta: alcuni concetti si sono già visti all’interno delle imprese sociali e nel più ampio panorama del no-profit. Anche se la logica in questo caso è stata più quella di chi fa di necessità virtù: la diffusa e permanente scarsità di risorse (o la loro destinazione a fini altri che non quelli di lucro) ha fatto sì che i meccanismi di condivisione potessero fungere come strategia per lo sviluppo di queste organizzazioni.  Perché le imprese for-profit stanno per intraprendere questo cammino?

Una prima spiegazione potrebbe essere legata, appunto, alle risorse: sempre più difficile ottenere capitali ed ancora di più, spesso, raggiungere risultati finanziari ragguardevoli. Un’impresa ha continuo bisogno di fonti di finanziamento per continuare a creare valore; quando queste scarseggiano è necessario trovare fonti alternative (un po’ la stessa cosa che avviene nel campo delle energie). Un esempio in questo senso credo che possa essere rappresentato anche dai workers buy out (con 13 progetti in Italia attualmente attivi)

Un secondo tema è quello dei conflitti: la globalità spinge le imprese a confrontarsi in più mercati (geografici e quindi culturali); in questo senso già l’Impero Romano aveva introdotto la figura strategica  del socius nei territori di conquista. Laddove una guerra (vera o figurata) rappresenta un costo troppo alto per l’ottenimento del beneficio correlato è preferibile creare alleanze, condividere le risorse e, infine, mantenere la governance.

Ultimo, e forse più nobile, il tema del crowdsourcing: un’azienda che riesce a far dialogare tutti i suoi componenti in un contesto collaborativo e non più rigidamente gerarchico, condivide saperi (know-how), conoscenze e tecniche in maniera più fluida. Una strategia che potrebbe risultare l’unica ad essere vincente in futuro.

Brand new

Il marchio è immagine, riconoscibilità, valore. In altre parole rende vendibile ciò che marchiamo. Sul valore del brand si fanno studi e ci sono consulenti che ne valutano efficacia e ne indicano la monetizzazione. Nella rincorsa tra i marchi a maggior valore i big player mondiali si sfidano per la scalata della classifica (nei mesi scorsi era Google che superava Walmart andando al primo posto; di questi giorni la notizia che Apple lo sopravanza).

Il marchio è una questione che riguarda anche i singoli? Probabilmente, considerato che ci sono ormai da qualche tempo specialisti che si occupano di quello che si chiama personal brandinganche in Italia dove, per esempio, c’è chi ne parla in maniera abbastanza approfondita (i blog Valoriprimilab e Marketing personale per esempio; oppure le recenti pubblicazioni de IlSole24Ore; ed infine un portale interamente dedicato al tema).

Ma come si costruisce un marchio personale? Su cosa si fonda e come può esserci utile?  Il cardine è senz’altro la propria reputazione. Che ha un processo di costruzione che va dall’ascolto, dalle azioni e dalla coerenza per arrivare al riconoscimento, alla fiducia, al consenso. In altre parole è  necessario essere capaci di ascoltare gli altri e il contesto che ci circonda, agire coerentemente con quanto abbiamo avuto modo di osservare ed infine raggiungere l’obiettivo di essere ri-conosciuti: come competenti per esempio, per apparire (ed essere) affidabili agli occhi dei nostri “clienti” che diffonderanno poi la nostra reputazione.

Così, forse, potremo creare il gradimento necessario a rendere vendibile il prodotto a cui teniamo maggiormente: noi stessi.