Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Social media coaching

Accompagnare le aziende, trasformare la consulenza in un supporto per creare storytelling“: non si potrebbe descrivere meglio il lavoro che anche personalmente sto cercando di fare con chi mi chiede di utilizzare i social media (e la comunicazione on line in generale). La frase che ho sentito all’ultimo Social Media Marketing Day qualche giorno fa. Ma perché piuttosto che fare consulenza (e formazione) è più vantaggioso adottare un approccio che assomiglia più ad un coaching che ad un’erogazione di un servizio diretto?

Innanzitutto un chiarimento: si tratta di cambiare l’approccio e non di cambiare i servizi (compresi quelli delle più classiche agenzie di comunicazione). Il motivo è che il marketing fatto con i social media risponde a criteri che sono più adatti ad un approccio relazionale che non ad uno connesso con l’advertising più tradizionale. Significa che sulle piattaforme di networking non si può solo fare pubblicità, bisogna costruire relazioni; non è sufficiente essere un’organizzazione, bisogna far vedere le persone (facce comprese) che la compongono.

Ecco perché credo che il percorso di adozione di una comunicazione su web, sui social media in particolare, abbia bisogno, in qualche caso, di essere accompagnata e supportata in modo da poter essere veramente integrata. Non sto parlando di un’integrazione con tutto il resto della comunicazione aziendale; intendo un’integrazione profonda e reale con tutta l’organizzazione. Un processo di comunicazione che parte dai valori ed arriva agli obiettivi. Come giustamente ha fatto notare Nicola Palmarini di IBM durante l’incontro a Milano “ogni azienda è un’azienda pubblica, il marketing non è un messaggio ma un comportamento“.

Ci sono almeno tre motivi validi perché questo tipo di impostazione, a mio modo di vedere, risulta essere vincente. Il primo motivo è che le azioni online (presenza sui social media, gestione di un blog, strategie di engagement) devono necessariamente sfociare sul territorio, avere una rilevanza “fisica”, “hardware”, “in presenza” o in qualunque maniera la si voglia chiamare. Se non altro per concretizzare gli sforzi fatti e rendere percepibili i risultati degli investimenti anche al cliente meno abituato a qualcosa di troppo intoccabile (perlomeno in Italia).

Il secondo motivo è che sono le persone a fare la differenza. Questo vale in due direzioni. La prima, quella maggiormente legata ad un discorso di comunicazione attiva: una tecnica adatta e funzionante sulle piattaforme social è quella dello storytelling; e sono molto più interessanti le storie delle persone piuttosto che quelle delle aziende e delle organizzazioni (ed in realtà è sempre stato così). La seconda direzione è quella più strettamente legata alle vendite: “il consumer journey è divenuto molto più complesso di un tempo perchè il mondo digitale ha aumentato a dismisura i touch-point tra cliente e produttore” (come giustamente ha fatto notare Roberto Liscia di Netcomm). L’implicazione maggiore è che i comportamenti online modificano quelli offline (i consumatori cercano consensi per i loro acquisti), il valore passa dalla parte del compratore (i social network arricchiscono l’esperienza di acquisto),  il brand crea fiducia solo attraverso le persone.

Il terzo motivo è legato ad una parola molto importante in questi ambienti: autenticità. Un fattore di fondamentale successo da qui in avanti sarà quello legato alla capacità delle organizzazioni di focalizzarsi sui valori fondamentali delle loro imprese (piccole o grandi che siano, perché da questo processo nessuno è escluso), di condividere questi valori con le persone che sono all’interno dell’organizzazione (partendo già dai processi di selezione mi verrebbe da dire), di abilitare quante più di queste a comunicarle all’esterno (nell’era dei social media ciascuno di noi è una piccola agenzia di comunicazione), di ascoltare cosa e quanto si dice all’esterno, di costruire una storia autentica, credibile e avvincente per raccontare il proprio prodotto e servizio.

Questo percorso penso di poterlo chiamare social media coaching e credo di poter dire che sarà, da qui in avanti, una buona strategia  per poter adottare i social media e tutto il resto della comunicazione on line con semplicità, efficacia, autonomia, lungimiranza (per chi vuole, questa è la pagina per contattarmi ed avere qualche altra informazione e consiglio).

social media coaching

+1 (ma è una sottrazione)

La potenza della tecnologia cambia il nostro modo di pensare, di muoverci, di vivere. Il mondo dei social media ha cambiato il nostro modo di relazionarci con gli altri, di costruire relazioni e di interagire con gli altri. Il principio che ispira questa convincente e capillare diffusione è la condivisione: nella sua versione più nobile la condivisione è qualcosa che assomiglia alla collaborazione, allo spirito di gruppo, alla possibilità di arricchirsi vicendevolmente o di raggiungere un obiettivo comune. Il marketing trova nella condivisione la possibilità di promuovere e diffondere un brand. Per entrambe le visioni la condivisione è un’operazione di aggiunta: +1 (come la sintesi che ha scelto, guarda caso, il motore di ricerca più forte al mondo quando è entrato nel mondo dei social.

Allora si potrebbe dire che la dinamica che alimenta la diffusione, persino l’esistenza, dei social sia una dinamica di addizione: + 1 post, + 1 fotografia, + 1 nota, + 1 aggiornamento, + 1 check-in, + 1 amico, + 1 collegamento. Ma chi si occupa di comunicazione, ed ancor più chi si occupa di scrittura, sa benissimo che uno dei segreti del successo di un messaggio è invece legato ad un’operazione contraria: sottrarre. La fatica che tocca fare quando ci si occupa di comunicazione è spesso quella di togliere, eliminare, tagliare il superfluo (anche quello che tale non sembra). L’obiettivo è quello di arrivare ad una essenzialità che perda elementi di distrazione e acquisti in brillantezza e potenza comunicativa. Ora, però, pare che in questo modo la comunicazione e i social media siano in antitesi e che la prima, diffusa attraverso i social network, sia poco efficace.

Sono anche io persuaso che in qualche modo questo sia vero, che l’abbondanza di input comunicativi, spesso poco curati e buttati nel mucchio “tanto per..” (condividere) sortiscano spesso un effetto contrario a quello voluto. O generino incomprensioni e fraintendimenti come ho scritto anche nel precedente post. Ma c’è anche un altro aspetto dell’addizione che potremmo considerare. Potrebbe essere un’idea mettere un “+1” alle nostre idee arricchendole con l’ascolto degli altri; aggiungere un punto di vista per provare ad interpretare meglio le circostanze e vedere “un altro mondo”; accrescere la propria consapevolezza (che è il primo passo per poter far bene anche tutte le altre cose). Anche questo post è +1: esce un giorno dopo di quando sarebbe dovuto uscire Qualche volta aggiungere significa anche prendersi del tempo prima di agire.

+1

Chi ci convince?

Vorrei parlare in questo post di come e quanto i social media possono influenzare le scelte di consumo degli individui. Lo farò prendendo in considerazione due “casi” di questo ultimo periodo. Ma prima di tutto la mia tesi. Credo che le organizzazioni, le aziende,  i soggetti che fanno promozione on line hanno in testa un obiettivo, legittimo, ma poco social: che il prodotto (o il servizio) piaccia al pubblico e che questo poi lo compri. Costi quel che costi. La mia tesi invece è che, come clienti, siamo influenzati in maniera differente in base ad una serie di parametri di natura diversa, legati non soltanto a quel preciso prodotto ma anche alla comunità a cui apparteniamo, ai legami e alle reti che costruiamo (o che crediamo di aver costruito), all’emotività di quel momento (che non necessariamente è costante) e, volendo, anche ad altro ancora. Sempre dal mio punto di vista sono tutti fattori connessi più che altro all’identità del soggetto che propone il prodotto/servizio e non questo stesso. Se potessi o dovessi dare un consiglio sarebbe quello di concentrarsi sulla costruzione di una propria identità (identità e non brand) che parte da valori fondamentali e, quasi, da meta-obiettivi. Una volta fatta la si può “utilizzare” (declinare) come la si vuole (commercialmente, digitalmente, ecc). Filosofia? Un po’, forse. Ma per riuscire a farmi capire meglio arriviamo ai casi pratici a cui accennavo.

Il primo riguarda il libro “Open”, l’autobiografia del tennista Andre Agassi. Per chi non lo sapesse, come ha raccontato ilPost, questo libro è uscito nel 2011 arrivando a vendere 15mila copie: secondo l’editore un numero onesto per essere l’autobiografia di un tennista americano venduta in Italia. Il fatto è che il libro è nella top ten dei più venduti ancora oggi, ad un anno e mezzo dal lancio. Di chi è la “colpa”? Ma, domanda secondo me più interessante: se foste stati gli addetti al marketing di questo libro come avreste raggiunto questo risultato se ve lo avessero posto come obiettivo? Con il senno del poi forse è più facile rispondere. Dietro la risposta ci sono tre identità forti (reputation) e con grandi capacità di coinvolgimento (engagement): Agassi (il protagonista), Jovanotti e Valentino Rossi (che su web hanno twittato il loro entusiasmo per la lettura di questo testo). Se avete letto il libro e conoscete gli altri personaggi vi accorgerete che ciò che li accomuna è una identità simile, fondata su valori simili (competizione, voglia di crescere, tensione al miglioramento, correttezza, concentrazione, passione, entusiasmo per elencarne alcuni). Per tornare a cose più concrete e meno filosofiche: che cosa è stato venduto? Il libro ma, soprattutto, uno stile di vita di un certo tipo che, probabilmente, è commercialmente più longevo di un libro.

Il secondo caso riguarda Parah. A detta di tutti la casa di moda ha fatto un autogol clamoroso nello scegliere come testimonial Nicole Minetti. Se avete dato un occhio ai commenti che ha ricevuto sulla propria pagina Facebook vedrete che i “fan” sono stati poco teneri nel giudicare in maniera nettamente negativa la scelta fatta. Non è un problema di qualità di costumi (chiaramente) e secondo me non è nemmeno questione di brand awareness in senso stretto. È stata “tradita” una identità che la casa di moda si era costruita nel tempo (ed immagino con pazienza e fatica) ed è stato fatto con l’intento (dichiarato esplicitamente da Parah) di stupire, colpire l’immaginario, creare attenzione. Ma il risultato, secondo me, sarà negativo in termini commerciali anche perché Parah l’attenzione dei suoi clienti ce l’aveva già; aveva solo bisogno di cercare un “socialtestimonial” in linea con i propri valori (e non necessariamente famoso secondo me).

L’identità che si porta nei social network non si improvvisa: ha radici lontane ed una storia che si costruisce giorno per giorno; è difficile improvvisarla oppure cambiarla con un colpo di scena. Ma se è coerente con i valori dei nostri clienti, se la si racconta bene, è la carta vincente di qualsiasi azione di social media marketing. In testa non bisogna avere soltanto le vendite (ci sono strumenti informatici e tecniche di e-commerce che possono fare molto meglio) ma anche l’idea di essere vicini ai propri clienti. Chi ci convince e persuade, come clienti, non è un personaggio (scandaloso o meno) ma qualcuno che consideriamo vicino. Qualcuno che (come dice Agassi proprio nel suo libro) ci ispira, facendoci agire e sentire meglio. Almeno questo, credo, è quanto accade nei social media.

Socialmedia, marketing e turismo

L’approccio che il settore turistico ha avuto con il mondo dei social media ed in particolare del web 2.0 è stato altalenante e  contraddittorio: casi di successo e storie di grandi crisi, storie di sodalizi stabili e di rifiuti netti degli strumenti offerti dalla rete. Una breve e semplice case history (in parte anche personale) può spiegare, secondo me, come possono essere utilizzati in maniera virtuosa strumenti e tecniche di social media marketing.

La storia (e la parola non è casuale) è quella del video WalkingSenigallia2012, un breve filmato realizzato e montato da un “turista” in vacanza nella città di Senigallia. Il prodotto finale, amatoriale ma con una certa dose di accuratezza nel montaggio e nella realizzazione, racconta in quattro minuti tutto quanto c’è da vedere nella città turistica della riviera adriatica. Comparso sui social media è finito anche nella stampa  locale (tradizionale e non solo) registrando molti apprezzamenti. E forse il suo percorso non è ancora finito.

Quali sono stati gli ingredienti di questo piccolo successo? Innanzitutto la buona qualità, seppur artigianale, del prodotto: i contenuti di qualsiasi proposta (commerciale) non possono essere scadenti e nemmeno “sufficienti”. Il secondo ingrediente è sicuramente la buona diffusione ottenuta con i social media: la si raggiunge costruendo reti significative (la scelta di contatti e contesti è fondamentale) e curandole nel tempo (niente si improvvisa anche se il tutto avviene piuttosto velocemente). Il terzo ingrediente è la formula bottom-up (“dal basso”) o, se vogliamo utilizzare un termine più in voga nel mondo dei social media, una certa modalità di crowdsourcing: chi ha realizzato il video è “una persona qualsiasi” e quindi la sensazione e la percezione che se ne ha è molto più legata al pubblico; anche per questo suscita una maggiore partecipazione e vicinanza di tipo emozionale (diversamente da quanto avviene con molte pubblicità tradizionali; sicuramente con meno sforzo). Da ultimo, come accennato, è importante saper raccontare una storia: osservando il video si vede un percorso, si legge una storia, c’è il racconto di un’esperienza prima ancora che di una città. Trovo che sia più interessante, senza dubbio, anche in termini commerciali, evidenziare esperienze (emozioni) piuttosto che mostrare prodotti (o servizi).

L’ingrediente ultimo e “segreto” è invece la passione: sia chi ha realizzato il video, sia chi lo ha diffuso hanno in comune lo stesso amore e la stessa passione per la propria città. Questa io trovo sia una spinta ben più forte ed importante di ogni genere di incentivo (anche economico) ed anche più evidente per il pubblico di qualsiasi investimento.