Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Meno attenti, meno competenti

Non so se viviamo, come dice qualcuno, in una società di distrazione di massa. Mi limito ad osservare quello che accade nei luoghi di lavoro (in senso lato di contesti) in cui mi trovo. Quello che osservo è un progressivo, più o meno lento, calo della competenza e della conoscenza di temi e contenuti a causa della distrazione a cui ci conduce “l’internet” (come direbbero gli Elio e le Storie Tese).

Il tema è quello della pluralità delle fonti (che chiamerò così per correttezza professionale, ma che potrei definire gergalmente “la mondezza nei social”) e della bolla informativa (anche qui: pigrizia conoscitiva, se nessuno si offende): lo schermo digitale, che da tempo è una dinamica finestra sul mondo, ci illumina (o abbaglia?) con una quantità quasi infinita di notizie, commenti, contenuti tanto da farci perdere, a volte, la certezza di quello che conosciamo.

Se è pur vero che la conoscenza è per sua natura un contenitore senza fondo e che possiamo (forse dovremmo) trascorrere la vita a imparare sempre cose nuove, è altrettanto verificabile che la maggior disponibilità di contenuti non ci permette sempre di guadagnare in “virtute e conoscenza” (scusate, ma è pur sempre l’anno di Dante). Qualche indizio. Verificando la cronologia del browser, quanto è diversificata, nel medio e lungo periodo, la tipologia di link? Delegando a un’apposita app il monitoraggio, che valori si registrano nell’utilizzo di social media (o di un solo social media)? Lavoro (anche) in un posto dove ormai molti anni fa si leggevano i giornali per documentarsi; ora sono stati sostituiti da fonti web ma mi chiedo: di eguale autorevolezza (attualizzata) e profondità (intesa anche come tempo dedicato)?

Abbiamo iniziato a produrre contenuti dimenticandoci quanto questo, in teoria, comporti studi, impegno, energie e tempo per elaborarli. Il click per pubblicare è facile, lo smartphone scatta belle foto (o ha l’app giusta per farle sembrare tali), condividere è un passaggio semplice e fare tutto questo non costa fatica. Credo che la fatica ci farebbe pensare. Credo che la velocità abbia fatto perdere la solidità. Una delle conseguenze, ritengo, è che così facendo perdiamo anche in competenza in ciò che ci facciamo: fermandoci alle prime apparenze non destiniamo le giuste risorse per costruire le nostre competenze. Rischiamo di essere superficialmente (in)competenti su troppi versanti per poter affermare di essere realmente espert* di qualcosa.

“Panta rei”, tutto scorre. Ma il flusso informativo è molto meno filosofico del pensiero di Eraclito secondo cui il divenire ci impedisce di vivere la stessa esperienza due volte. Lo abbiamo tradotto in un lascivo ed effimero “senso di fretta” privo di orientamento. Gli inglesi, nella comunicazione, ammoniscono “less is more”: credo che abbiamo bisogno di fare (scrivere, pubblicare, commentare, produrre) meno per avere e essere “di più”.

Identità digitale

Lo scorso fine settimana ho scoperto uno strumento simpatico per calcolare la rilevanza della propria identità digitale. Più indicato per chi è alle prime armi, piuttosto che per chi è un utilizzatore professionale degli strumenti digitali (social media, blog, ecc.).

On line ID calculator è basato sulle ricerche Google e chiede di rispondere a 10 semplici domande per fare una stima della propria rilevanza digitale. In realtà la disamina, perlomeno nel contesto italiano, forse è un po’ superficiale. Però può restituire indicazioni interessanti. Anche perché offre alcuni spunti su come lavorare e aggiustare il tiro qualora la propria “impronta digitale” non sia così performante.

Quando avrete risposto alle domande, On line ID calculator posizionerà il vostro brand all’interno di un quadrante su cui sono rappresentati volume e rilevanza della vostra presenza on line: i quadranti in cui potreste posizionarvi sono “digitally disastrous” (molta presenza ma poco qualificata), “digitally dissed” (poca presenza e poco qualificata), “digitally dabbing” (poca presenza ma molto qualificata), “digitally distinct” (molta presenza qualificata).

Il sistema vi da anche dei consigli che riguardano la “purezza” (quanto i risultati on line rappresentano in maniera coerente il vostro brand),  la “diversità” (la varietà di piattaforme su cui siete presenti e la varietà di contenuti con cui lo siete), la “credibilità” (cioè quanto i risultati che vi rappresentano lo fanno in maniera buona).

A cosa serve uno strumento come questo? Dal mio punto di vista, come accade (o forse è meglio dire come è accaduto) con Klout, ad avere un benchmarking delle proprie attività online. Sconsiglio di mettersi a paragonare il proprio risultato con quello degli altri (a mo’ di gara) oppure di utilizzarlo come indicatore (quasi) unico della professionalità di un soggetto.

La prova la possono fare professionisti ed anche aziende e organizzazioni: quello che si può misurare è un brand nel senso più lato possibile. Personalmente ho fatto la prova e il distintivo che ho ottenuto è quello qui sotto. 🙂

 

 

I am digitally distinct! Visit onlineIDCalculator.com

No more guru

Volevo iniziare questo post con quelle frasi tipo “viviamo tempi in cui…” oppure con quelle domande retoriche come “chi vi può aiutare a…”. Poi mi sono fermato perché la cosa, oltre che essere abusata, era poco coerente con quello che voglio esprimere. Il mio pensiero è questo: è tempo di smettere di cercare un guru che ci “illumini” per ogni cosa che dobbiamo fare.

Permetto che la mia impressione, lo ammetto, è fortemente condizionata da quel che vedo scorrere nelle timeline dei social network che utilizzo. Però, mi capita sempre più spesso di vedere l’esaltazione di personaggi e “pensieri guida” che dovrebbero essere considerati profeti del nostro tempo. Spesso quelli che dovrebbero o potrebbero essere pensieri, idee, considerazioni personali vengono assunti come regole, comandamenti, verità assolute.

Non c’è niente di male nel condividere un pensiero che coincide con la nostra visione del mondo, le nostre sensazioni, il nostro stesse sentire. Tutto sta nel vedere se quel pensiero è davvero nostro e lo abbiamo riconosciuto nelle parole di qualcun altro, oppure ci ha catturato perché è stato esposto bene (e magari anche perché su certi temi noi un’opinione proprio non ce l’avevamo e abbiamo sposato quella più convincente). Faccio un esempio che reputo abbastanza vicino a quello che intendo. Anche io apprezzo Gramellini su La Stampa, ma non credo che la sua rubrica “Buongiorno” rappresenti la verità ogni giorno. Ho la sensazione che invece le sue parole, per quanto sempre ben articolate e fondate, siano considerate con un trasporto eccessivo (per usare un eufemismo). E, attenzione, quel che intendo nulla ha a che vedere con la bontà o meno di quanto esposto.

Mi verrebbe di chiamarla “sindrome da guru“: un insaziabile bisogno di avere certezze, di trovare un ancora a cui aggrapparsi, un faro illuminante. Un desiderio che nel nostro tempo è esaltato e trova uno scenario adatto nei social media e nelle altre piattaforme di condivisione. Ho l’impressione che la continua ricerca di un punto di riferimento possa trasformarci da assetati di conoscenza (se mai lo siamo stati) a babbei utili per l’esaltazione di qualsivoglia causa.

Credo invece che non sempre abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica che cosa fare. Ho idea che potrebbe essere arrivato il momento di conquistare un po’ più di autonomia di pensiero, giusto o sbagliato che sia. Proviamo a smettere di rivolgerci a chi ci spiega come fare. Facciamolo e basta. Facciamo come abbiamo imparato. E se non abbiamo imparato abbastanza, torniamo a studiare. Ma, vi prego, no more guru.

 

Saldi: tra social media, ecommerce e retail tradizionale

Questo post è sostanzialmente il racconto di quel che mi è successo, visto con gli occhi di chi guarda con curiosità e qualche competenza a quel che avviene nelle relazioni con i clienti nell’era dei social media. In altre parole, se fosse un film, a questo punto dovrebbe passare la scritta “basato su una storia vera”. Anche se non si tratta di un film, vediamo se riesco a scrivere una sceneggiatura credibile.

Dunque, tempo di saldi e l’arrembante consumatore approfitta per un piccolo rinnovo dell’armadio (del suo contenuto per la precisione): parte il giro di alcuni negozi di abbigliamento fidati in cui va in cerca di capi e marchi più o meno conosciuti. In una di queste boutique l’occhio (e il cuore) cade su un giaccone per il quale la favella del commesso ha speso parole sensate, convincenti, corrette. Ma, ahimè, non c’è la misura del modello di interesse.

Il giro prosegue ma quel giaccone torna nei pensieri dell’acquirente ormai in preda a una passione irrinunciabile. Il tizio, abituato a spendere buona parte del suo denaro attraverso l’e-commerce tenta la via del web. Ma, sorpresa, l’oggetto dei suoi desideri e delle sue ricerche non si trova facilmente e quando viene fuori qualcosa non è mai a prezzo di saldo. Al che, sempre con la faccia davanti al PC, tenta un’altra strada. Sito del produttore, ricerca dei retailers di zona (sì il sito, estero, ha lo shop online ma è già concentrato sulla primavera / estate). La pagina web indica una serie di negozi in tutta Italia (manca a dire il vero però quello in cui l’ho trovato “live”). L’indomito consumatore (e consumista, diciamolo!) sceglie qualche località sparsa in cui può arrivare con propri mezzi e senza sforzi (cioè posti in cui non dovrebbe andare appositamente): Verona, Milano, Rimini, Fano, Falconara Marittima, Macerata, Civitanova Marche.

Chiaramente l’idea non è quella di fare il giro d’Italia. Ma nemmeno quella di fare delle telefonate. In soccorso ci sono i social media! E qui scatta la parte più investigativa della faccenda. Di 7 negozi, tutti sono presenti su Facebook, 6 hanno anche il sito web (che però non è stato analizzato se non per cercare una forma di contatto). Le pagine riportano correttamente orario di apertura e servizio di messaggistica; una di queste pagine ha l’indicazione che dice “risponde solitamente in pochi minuti”.

L’internauta modaiolo decide a questo punto di contattarli con lo stesso messaggio che richiede la disponibilità del capo di abbigliamento in questione. Il contatto avviene laddove possibile sia attraverso Facebook che attraverso il sito web (una pagina però non ha inserito l’indicazione del sito). Ecco che cosa ne è venuto fuori. Le pagine non sono tutte aggiornate di recente: una ha l’ultimo update pochi giorni prima (siamo ai primi di gennaio, il 9 per la precisione), due hanno l’ultimo post datato dicembre 2015 , una ottobre 2015, una settembre 2015, una a marzo 2014 (sono quasi due anni!) e l’ultima (in tutti i sensi) a novembre 2013!

Senza perdersi d’animo e convinto che troverà soddisfazione il social-media-consumer riceve risposta in tempi diversi. Da tre negozi la risposta deve ancora arrivare (verrà rubricata come “MAI”); uno risponde il giorno seguente, di mattina presto, ma attraverso il form del sito (la pagina FB evidentemente non la segue); altri due rispondono in 3 ore il più lento e in 1 ora il più veloce. Il record però è del negozio che dopo 7 minuti è già in chat con una risposta.

Volendo fare un’analisi anche qualitativa delle risposte, i feedback, a parte quelli per mancanza o indisponibilità del capo cercato sono stati da una parte la richiesta a telefonare perché “Facebook lo guardo solo da casa” e dall’altra invece l’apertura di un dialogo simile a quello che si avrebbe con una commessa o un commesso gentili di un negozio: che taglia le occorre, abbiamo questi colori, lo possiamo tenere da parte, le faccio sapere quando siamo aperti, ecc. ecc. Non so se lo avete intuito, ma questo tipo di risposta è arrivata dallo stesso negozio che ha risposto dopo 7 minuti.

Breve conclusione (opinabile e non oggettiva). A vendere, nel senso di conquistare il consumatore, è stato il negozio in cui il capo è stato visto, indossato, provato e anche presentato bene: ergo, a mio modo di vedere, il retail fisico in questo campo ha ancora tutto il suo valore. Avere e gestire bene una pagina Facebook (o altro social media) è un lavoro per il quale servono competenze specifiche ma anche la conoscenza del mestiere (la social media manager del più efficiente era anche l’addetta vendita del negozio fisico). Farsi trovare pronti non è solo questione di prontezza della risposta (in termini di ore e minuti) ma anche di savoir faire e dimestichezza nell’uso delle parole. Ultimo: a vincere, nelle dinamiche del web commerce (posso chiamarlo così) non è più solo il prezzo. Anche se in saldo il prodotto in questione è di nicchia e sicuramente non si vende a chi cerca solo di risparmiare; in questi casi conta molto di più tutto il processo di aggancio del cliente e, poi, anche di post vendita (ma di questo magari parleremo un’altra volta). Utilizzate, se volete, i commenti per dire la vostra.

PS: mi va di dire che il negozio “vincitore” (che ha risposto bene e in fretta) è Sansovino Shop di Fano: il giaccone lo ha pure venduto alla fine anche se il link al suo sito dalla pagina FB non funziona 🙂

Essere attraenti

immagine Amazon2Attirare l’attenzione non è sempre una cosa facile. E non sempre quando la si ottiene il motivo è nobile. Sugli “abbagli” della comunicazione ho già scritto in questo post qualche tempo fa. Quello di cui voglio parlare oggi è invece questo: come facciamo a diventare interessanti, attraenti, significativi con quelli che potremmo definire i nostri clienti? Perché, come ormai penso sia a tutti chiaro, non esiste più una pubblicità efficace, tradizionalmente intesa. Buttiamo via le centinaia di volantini che compaiono nella cassetta della posta, ascoltiamo distrattamente spot in radio e televisione, facciamo fatica a leggere (e quindi saltiamo) tutte le condizioni della promozione dell’ultimo momento. Chiedo: chi di voi è rimasto colpito dal banner o dal pop-up dal design splendido (che però interrompe la lettura dell’articolo) o ha fatto caso a tutti i contenuti dell’ennesima mail piena di pubblicità mai richiesta?

In sintesi, non abbiamo più voglia di essere bombardati di informazioni e notizie che non ci interessano e che ci arrivano solo perché ci considerano consumatori con una porzione di reddito da spendere. Questo tipo di comunicazione promozionale (chiamiamola così) rischia di avere come unico risultato l’indifferenza del cliente (e catturare l’attenzione in questo modo diventa sempre più costoso). A meno che…

A meno che non ribaltiamo il punto di vista e proviamo a capire gli interessi dei nostri clienti, prima dei loro gusti. Oggi la vera efficacia nelle azioni di marketing (che sempre più diventa il modo con cui conosciamo i nostri clienti e non il metodo per vendergli qualcosa) la si ottiene con una lenta, strutturata, attenta e meticolosa azione di ascolto e produzione di contenuti interessanti, significativi, attraenti. Pensate alle vostre relazioni: qual è l’amico o il partner che maggiormente ottiene la vostra considerazione? Se non siete ingenui, sapete già che è quello/a che esprime idee originali, conversa in maniera amabile, tratta argomenti interessanti. Alla lunga questo/a vince sempre su quello/a che veste all’ultima moda, indossa un abito appariscente ma non sa esprimere un concetto. Quello che accade oggi è che di clienti ingenui, pronti ad abboccare al primo abbaglio, ce ne sono sempre meno.

Negli ultimi mesi, con Luca Conti, abbiamo un po’ esplorato questo tema e ne è uscito un libro disponibile da oggi nelle librerie. Lo abbiamo intitolato “Inbound marketing: attirare, soddisfare, fidelizzare i clienti” (Hoepli Editore). Nel libro abbiamo provato a trattare in maniera dettagliata il tema, dare qualche consiglio e molti strumenti per essere attraenti. Quello che potete fare voi è provare a leggerlo e dirci come la pensate: fateci sapere se siamo riusciti ad essere interessanti e, soprattutto, se sarete riusciti ad esserlo voi dopo averlo letto. Buona lettura!

Occasione: per chi acquista il libro entro il 20 luglio in omaggio con la copia cartacea c’è l’ebook, basta cliccare qui.