Più sei piccolo, più deve essere consistente

Il titolo di questo articolo mi fa un po’ vergognare perché, lo ammetto, ha quell’allusione da comicità pecoreccia che di solito non mi piace affatto. Chiaramente il tema non è “quello”, ma qualcosa che sta molto di più nelle mie corde: i contenuti (consistenti) nella comunicazione.

Mi è capitato recentemente, più spesso del solito, di sentire dinamici creatori di contenuti, social media manager, addetti alla comunicazione (e non solo) affermare con una certa sicurezza che “tanto la gente non legge, non vale la pena scrivere tanto“. Mi permetto di dissentire e di spiegarlo con quelle che ritengo motivazioni plausibili.

La “gente”. Innanzitutto diffido di tutte le sentenze che hanno come soggetto attivo questo nome comune indefinito che, di fatto, quando viene usato (oralmente o per scritto) è uno dei primi segnali delle generalizzazioni che vanno bene quasi per tutto e per niente. “La gente” è qualcosa di indefinito, lontano (quasi mai chi lo usa se ne sente ricompreso) e spesso avverso (la gente è sempre quella che sbaglia). Credo che per comunicare qualcosa in maniera efficace, elaborare un contenuto che possa essere letto (visto o ascoltato) sia più fruttuoso immaginarci un “noi” oppure costruire o immaginare da chi sarà composto il pubblico a cui vorremmo dire qualcosa.

Leggere e ascoltare poco. Siamo proprio sicuri che questa sentenza sia vera sempre e comunque? A me pare più vicino alla realtà un altro diverso presupposto. La quantità di contenuto fruito, in termini di profondità e non di diversificazione, credo che dipenda da almeno un paio di variabili. La prima è rappresentata dalla tipologia di fruitore: non solo dati anagrafici (della serie i “vecchi” leggono di più e i “giovani” non leggono, che poi non è nemmeno così vero), ma anche stili e abitudini di vita nonché il percorso con il quale l’utente entra in contatto con il contenuto prodotto. La seconda riguarda il contesto (quali sono i contenuti, in che ambito li diffondiamo, che brand stiamo proponendo se si tratta di comunicazione legata al marketing) e il valore del contenuto (o del prodotto): se sto proponendo un contenuto per il quale a chi ascolta è richiesto un investimento (in tempo, in denaro o altro), credo che la quantità di informazioni da distribuire aumenti in proporzione. Per portare qualcuno a interessarsi all’acquisto di un auto siamo sicuri che basti un video divertente di 30 secondi?

Livello di attenzione. E veniamo alla questione su cui concordo rispetto all’efficacia di una comunicazione veloce e superficiale. Ormai da tempo la soglia di attenzione dell’utente medio su web (o l’attenzione media su web) è attestata su livelli da pesce rosso (come recita una leggenda circolata per anni), cioè molto bassi: lo scroll è frenetico e incessante e quindi la presunta bravura sarebbe quella di far fermare per qualche secondo in più a “riflettere” l’utente sul contenuto che proponiamo (una sosta in ogni caso disinvolta e sfuggente). Si tratta, a mio avviso, di una fase (la prima?) della comunicazione on line e forse, in qualche caso, nemmeno della più importante. Può essere vero che a un basso livello di attenzione corrisponda una comunicazione veloce e superficiale, ma se vogliamo intercettare anche un livello di interesse (alto o basso che sia), dobbiamo restituire qualcosa che alimenti e soddisfi quell’interesse. E se vogliamo rimanere nel marketing, credo che i potenziali clienti siano quelli che hanno interesse in quel che diciamo e non solo una rapida e fugace voglia di divertirsi. 

A me pare, per tornare al titolo pecoreccio, che l’investimento sull’elaborazione di contenuti un po’ più corposi a fianco di quelli più leggeri, sia ancora più necessaria per realtà piccole e locali, per quei brand che non sono ancora del tutto riconosciuti (e qualche volta nemmeno conosciuti): in questi casi la lotta per catturare l’attenzione sfuggente degli utenti rischia di essere dispendiosa e poco proficua. Sarebbe meglio, a mio avviso, concentrare l’attenzione, attraverso i contenuti, sulla costruzione della propria identità di marca (a proposito, tra qualche settimana se ne parlerà al Brand Festival), sulla definizione della proposta di valore, sulla soddisfazione delle richieste degli utenti che dimostrano interesse.