Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Organizzazione, potere e co-creation

Una delle principali questioni relative alle organizzazioni è certamente la loro modalità di organizzarsi, darsi un senso strategico e una modalità operativa. La mia domanda è: che visione abbiamo di come dovrebbe essere organizzata una comunità (o un’impresa?). Quanto è forte (debole) la nostra cultura su questi temi? Me lo sono chiesto dopo aver assistito alla discussione che sto per raccontare: niente di straordinario ma qualcosa di significativo. Ecco i fatti.

Diciamo che ho avuto modo di confrontarmi con una persona decisamente giovane, con un ruolo se non di potere quantomeno di rappresentanza all’interno di una grande organizzazione (burocratica): il quid era come impostare e gestire un evento insieme. Disquisendo sul chi-fa-cosa ad un certo punto le esce la frase “Comunque considera che se Asterix e Obelix decidono una cosa, poi gli altri devono obbedire” mimando un riverente inchino. Asterix ed Obelix sono i nomi di fantasia di due capi (manager, direttori, dirigenti possiamo scegliere quello che vogliamo) al vertice di due organizzazioni (i veri nomi li ometto per una serie di motivi, tra cui il fatto che sono ininfluenti rispetto al racconto).

Ora, quel che mi ha stupito è che la giovane e brillante mente che si è espressa in questo modo era piuttosto convinta che: le organizzazioni sono comunque rigide e verticistiche;  il potere è dall’alto verso il basso;  la collaborazione funziona ed ha un senso se viene imposta. Questo concetto a me non piace: non credo che aiuti a crescere, che sia attuale, che possa essere significativo per i tempi che viviamo, che possa funzionare (forse mi auguro anche che non funzioni più). Se parliamo di un’azienda, se passiamo da un’organizzazioen generica ad una a carattere imprenditoriale, non penso possa essere adatto al mercato in cui si opera, qualsiasi esso sia.

Torno a chiedermi: quale cultura ho delle organizzazioni? Che idee di sviluppo ho in mente? Quale concetto di crescita e di mercato mi appartiene? A me, per intenderci,  piace questo: “il mercato come un luogo dove aziende e clienti/consumatori condividono, combinano e rinnovano insieme risorse e capacità per creare valore attraverso nuove forme di interazione, servizio e metodologie di apprendimento“. La definizione è quella di co-creazione che si trova su Wikipedia ed io trovo che è un paradigma che potremmo declinare in tutti i contesti in cui ci troviamo a vivere, professionalmente o personalmente. O mi sbaglio?

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Social media coaching

Accompagnare le aziende, trasformare la consulenza in un supporto per creare storytelling“: non si potrebbe descrivere meglio il lavoro che anche personalmente sto cercando di fare con chi mi chiede di utilizzare i social media (e la comunicazione on line in generale). La frase che ho sentito all’ultimo Social Media Marketing Day qualche giorno fa. Ma perché piuttosto che fare consulenza (e formazione) è più vantaggioso adottare un approccio che assomiglia più ad un coaching che ad un’erogazione di un servizio diretto?

Innanzitutto un chiarimento: si tratta di cambiare l’approccio e non di cambiare i servizi (compresi quelli delle più classiche agenzie di comunicazione). Il motivo è che il marketing fatto con i social media risponde a criteri che sono più adatti ad un approccio relazionale che non ad uno connesso con l’advertising più tradizionale. Significa che sulle piattaforme di networking non si può solo fare pubblicità, bisogna costruire relazioni; non è sufficiente essere un’organizzazione, bisogna far vedere le persone (facce comprese) che la compongono.

Ecco perché credo che il percorso di adozione di una comunicazione su web, sui social media in particolare, abbia bisogno, in qualche caso, di essere accompagnata e supportata in modo da poter essere veramente integrata. Non sto parlando di un’integrazione con tutto il resto della comunicazione aziendale; intendo un’integrazione profonda e reale con tutta l’organizzazione. Un processo di comunicazione che parte dai valori ed arriva agli obiettivi. Come giustamente ha fatto notare Nicola Palmarini di IBM durante l’incontro a Milano “ogni azienda è un’azienda pubblica, il marketing non è un messaggio ma un comportamento“.

Ci sono almeno tre motivi validi perché questo tipo di impostazione, a mio modo di vedere, risulta essere vincente. Il primo motivo è che le azioni online (presenza sui social media, gestione di un blog, strategie di engagement) devono necessariamente sfociare sul territorio, avere una rilevanza “fisica”, “hardware”, “in presenza” o in qualunque maniera la si voglia chiamare. Se non altro per concretizzare gli sforzi fatti e rendere percepibili i risultati degli investimenti anche al cliente meno abituato a qualcosa di troppo intoccabile (perlomeno in Italia).

Il secondo motivo è che sono le persone a fare la differenza. Questo vale in due direzioni. La prima, quella maggiormente legata ad un discorso di comunicazione attiva: una tecnica adatta e funzionante sulle piattaforme social è quella dello storytelling; e sono molto più interessanti le storie delle persone piuttosto che quelle delle aziende e delle organizzazioni (ed in realtà è sempre stato così). La seconda direzione è quella più strettamente legata alle vendite: “il consumer journey è divenuto molto più complesso di un tempo perchè il mondo digitale ha aumentato a dismisura i touch-point tra cliente e produttore” (come giustamente ha fatto notare Roberto Liscia di Netcomm). L’implicazione maggiore è che i comportamenti online modificano quelli offline (i consumatori cercano consensi per i loro acquisti), il valore passa dalla parte del compratore (i social network arricchiscono l’esperienza di acquisto),  il brand crea fiducia solo attraverso le persone.

Il terzo motivo è legato ad una parola molto importante in questi ambienti: autenticità. Un fattore di fondamentale successo da qui in avanti sarà quello legato alla capacità delle organizzazioni di focalizzarsi sui valori fondamentali delle loro imprese (piccole o grandi che siano, perché da questo processo nessuno è escluso), di condividere questi valori con le persone che sono all’interno dell’organizzazione (partendo già dai processi di selezione mi verrebbe da dire), di abilitare quante più di queste a comunicarle all’esterno (nell’era dei social media ciascuno di noi è una piccola agenzia di comunicazione), di ascoltare cosa e quanto si dice all’esterno, di costruire una storia autentica, credibile e avvincente per raccontare il proprio prodotto e servizio.

Questo percorso penso di poterlo chiamare social media coaching e credo di poter dire che sarà, da qui in avanti, una buona strategia  per poter adottare i social media e tutto il resto della comunicazione on line con semplicità, efficacia, autonomia, lungimiranza (per chi vuole, questa è la pagina per contattarmi ed avere qualche altra informazione e consiglio).

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Il leader viola

In questo blog ho parlato altre volte di leadership e di come e quanto possa contribuire alla “costruzione” di un leader la sua formazione, le competenze trasversali, la capacità di motivare gli altri e di saperli ascoltare e quella di riuscire a vedere, con lungimiranza, oltre le esigenze e le contingenze quotidiane. Ma quanto un leader deve (può) essere una persona “straordinaria”?

Utilizzo questa parola riprendendo il concetto del libro di Seth Godin, “La mucca viola“. Per chi non lo avesse letto il libro parte proprio enunciando un concetto semplice: un prodotto è viola quando per le sue caratteristiche e qualità risulti essere unico nel suo genere, originale e, appunto, “straordinario”. Una mucca viola ottiene, più di ogni altra, una cosa: l’attenzione unica di chi la guarda. Non è possibile distrarsi se abbiamo davanti una mucca viola, non è possibile non stupirsi la prima volta che la si vede, non è possibile non continuare a pensarci una volta vista. Insomma, la mucca viola è qualcosa di straordinario ed originale, unico, irripetibile, invidiabile, migliore, innovativo. Possibile che esista anche il leader viola?

Sono tempi in cui chiaramente la straordinarietà premia, soprattutto se intesa come l’opportunità di stupire e di meravigliare gli altri. Anche l’assunto da cui parte l’esperto americano di marketing è quello che l’attenzione generale è molto più sfuggente: consumatori, lettori, spettatori (collaboratori?) son sempre meno disponibili a mantenere una concentrazione intensa e duratura su ciò che viene loro presentato. Giusto o sbagliato che sia sembra quasi essere un fenomeno fisiologico, dovuto quasi ad un mutare antropologico. Ma la straordinarietà aiuta anche a costruire team efficaci ed efficienti?

Se i prodotti nei mercati hanno ancora bisogno di mucche viola non lo so, ma le organizzazioni hanno bisogno di leader che possano portare anche altri colori. Il “leader viola” genera sicuramente uno stupore che può essere utile inizialmente: per convincere, spingere a partecipare, introdurre un cambiamento in maniera entusiastica. Ma poi ha bisogno anche di altro: della motivazione, cioè di imprimere la forza che ci spinge a fare qualcosa facendo leva sulle emozioni (violetto?); della flessibilità, la capacità di adeguarsi in fretta a un cambiamento mettendo a punto adeguate strategie (turchese?); della resilienza, la capacità di reagire ai traumi salvandosene e migliorando (indaco?). Oltre lo stupore, per un leader, ci sono tante altre sfumature.

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Parola magica

Come si affrontano i clienti? Con quale giusta strategia e modalità si costruisce una proposta commerciale? Quale sono i criteri con cui si predispone un punto vendite o una sala per un evento? Secondo quale principio di progetta uno spazio web? C’è una parola (magica) che sta dietro a tutte le risposte possibili a queste domande. La parola che ho in mente io è accoglienza. Scontato il fatto che si intende buona accoglienza. Accoglienza credo inoltre che sia la parola magica per aprire una serie di porte anche nel mondo digitale dove questa parola, se ben interpretata e applicata, può essere il filo conduttore di una strategia web vincente.

Che cosa significa accoglienza? Il vocabolario utilizza questi termini per definirla:  il modo e le parole con cui si accoglie. Due concetti fondamentali perché con il primo si dimostra uno stile, una filosofia, una vision e con le seconde si cerca di farlo percepire nel migliore dei modi a chi si ha di fronte. Parole e gesti, perché l’accoglienza è come un abbraccio. Un’organizzazione che volesse tradurre tutto questo in una buona pratica potrebbe lavorare su tre aspetti, a mio modo di vedere, fondamentali.

Il primo, la predisposzione di una front-line preparata ed efficace. Che si tratti di un help-desk, una reception, una divisione commerciale, un sito di e-commerce o qualsiasi altra cosa abbia a che fare con i clienti è importante che sia allineata con i valori dell’organizzazione, che li sappia tradurre in comportamenti coerenti, che sia in grado, metaforicamente,di mettersi a fianco del cliente e non di fronte.

Il secondo, un servizio totalmente orientato al cliente. Ci sono strumenti, tempi e tecniche per mettere qualsiasi organizzazione nelle condizioni di poter immaginare e creare un servizio o un prodotto customer oriented.  Significa, non solo immaginare strategie di business che tengano nella massima considerazione la soddisfazione del cliente, ma anche adottare comportamenti sensibili (ascolto e rispetto) alle istanze del pubblico.

Il terzo, un feedback attivo. Non è l’ufficio reclami di fantozziana memoria che può risultare utile per la creazione di un sistema di accoglienza integrato. Si tratta di applicare, anche in questo caso, il virtuoso ciclo di Deming: plan, do, check, act. I processi di rilevazione della soddisfazione del cliente devono essere concepiti perché possano avere effetti concreti sul business.

Se dovessi dare un consiglio direi che per fare tutto questo nel migliore dei modi sarebbe questo: ricreare condizioni e presupposti di un posto in cui ci si è trovati veramente bene. L’accoglienza è un sistema integrato che parte dal sorriso (fondamentale) di chi si occupa di hosting ed arriva fino al cuore delle organizzazioni.

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Il social lavoro

Oggi tutto può essere social. A volte deve esserlo. La parola social è una riscoperta, in parte, fatta nel tempo delle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione (ICT). Ma dietro la comunicazione tecnologica ci sono un sacco di cose diverse. Realtà, strategie, filosofie, tecnologie diverse: sistemi gestionali, web 2.0, social network; ma anche nuovi modi di fare formazione, di produrre,di organizzare la vita delle persone.  In teoria, una rivoluzione. Nella pratica le cose son un po’ diverse, quantomeno nelle aziende e nelle  organizzazioni.

La responsabilità è della cultura e della mentalità dominante, in particolare tra le figure manageriali e tra chi ha il compito (ingrato di questi tempi) di gestire gruppi, organizzazioni, società. La cultura del posto fisso ha influenzato anche le sfere decisionali: la logica per cui c’è sempre un migliore da porre alla guida di tutti gli altri è figlia di questo genere di pensiero individualista, che non fa conto (perlomeno in prima ed istintiva istanza) sulla logica della rete, della socialità, della condivisione. Questo però non aiuta il cambiamento, proprio quello per le quali le nuove tecnologie sono “abilitanti”. Nel senso che la “vita digitale”,  la cui nascita e crescita è dovuta principalmente ai social media, si sviluppa in un nuovo ambiente, in una diversa dimensione, con un orizzonte a cui non eravamo abituati. Un ambiente (in tutti i sensi) creato ma non ancora dominato (ammesso e non concesso che il paradigma della dominazione sia quello corretto).

Il social lavoro, dal mio punto di vista, è proprio questo: il processo attraverso il quale le persone e le organizzazioni riusciranno ad inserirsi in maniera soddisfacente e produttiva all’interno di questa dimensione nuova che, contrariamente a quanto si può pensare in prima battuta, non è una dimensione totalmente digitale. Il social lavoro è la possibilità di estendere la propria identità professionale in ambienti nuovi e differenti. Coinvolgimento, entusiasmo, cura delle relazioni personali, possibilità di fare cose nuove insieme, definizione di nuovi stili: sono questi i driver che possono aiutare a condurre i team di lavoro verso il successo. Minor attenzione alle individualità ed ai segni esteriori del lavoro, maggior cura nel coordinare le risorse e nel raggiungere obiettivi condivisi in gruppo. Per questo è necessaria una cultura (ed una formazione) che ci aiuti a far funzionare il cervello in maniera ramificata e non accentrata, che ci spinga a cercare gli altri e non ad affrontarli, a vedere il sistema e non solo il risultato.

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