Forward business.

“Siamo un’impresa, non un’azienda”: la frase non è mia ma, come qualche volta accade, è come se lo fosse tanto la trovo vera e convincente. Ma non è solo questo a legare la mia forma mentis (professionale) ad una realtà come quella del Gruppo Loccioni che ho avuto il piacere di ritrovare durante l’open demo del Muster di FiordiRisorse. Vorrei condividere, perché li trovo utili. alcuni spunti interessanti emersi da una giornata che è stata formativa in una maniera diversa,dinamica e innovativa (come questa iniziativa effettivamente dice di essere). Li riassumo in tre punti cercando di essere quanto più possibile esaustivo nello spiegare come si possa costruire un business che guarda avanti, che si sviluppa continuamente; quello che ho chiamato nel titolo “forward business“.

Il primo punto è l’identità che possiamo definire partendo proprio dalla frase all’inizio di questo post. Azienda ed impresa  non sono la stessa cosa dal punto di vista linguistico e, quindi, nemmeno da quello operativo (per me che ho fatto una tesi sullo start-up di impresa questo concetto è quanto mai cruciale). L’azienda è un’organizzazione mentre l’impresa è un’idea che si sviluppa, possibilmente guardando al futuro. Ed è molto diverso se chi lavora in un’organizzazione si identifica con un’azienda (facendo attenzione solo a mansioni, livelli, posizioni) o con l’impresa (e quindi con un progetto, un obiettivo, una visione); una differenza che può trasformarsi in vantaggio competitivo.

Il secondo punto è la prospettiva: questa è la capacità di inserire la propria vision all’interno di uno schema o, meglio, di un progetto senza che questo diventi un rigido vincolo (il video one point prospective sintetizza a mio giudizio molto bene questo tipo di capacità). Una prospettiva che ha come punto centrale il cliente (il suo one-point). Il cliente diventa così parte del progetto stesso e non solo il compratore del prodotto o servizio finale: questa è una prospettiva per la quale ci vuole un buon regista e, soprattutto, una visione (ed una capacità e possibilità di investire) di lungo periodo che non sempre si può semplicemente adottare. Servono tempi e modalità che non siano calibrati sull’immediatezza ma sulla disponibilità (entrambe fanno sì che quando il cliente chiama subito si risponde, ma con due idee e strategie diverse).

Il terzo punto riguarda la capacità di costruire reti o, meglio, di essere reti. Credo che la differenza sia nella possibilità che si ha, nel secondo caso, di “restare giovani””. Non è una questione anagrafica (non solo perlomeno). Il network si costruisce su un obiettivo chiaro e condiviso, su qualcosa di operativo da realizzare in breve tempo, sulla condivisione di uno spazio e di un tempo (il mercato ad esempio). Ma quello che anima una rete sono i valori, non tanto le competenze: in un network che fa rimanere giovani è importante riuscire ad imparare qualcosa dagli altri senza paura di che è migliore di noi. Una sorta di evoluzione collaborativa. Tanto facile da predicare, quanto ostica da praticare.

Concludo questo post con una frase che ho scritto anche su twitter quando ho visto con quale metafora ludica si intendono i progetti all’interno di quella che è stata definita una play-factory: progettare è un gioco tutto da misurare. Un gioco nel quale non bisogna aver timore di cimentarsi, in cui la “prima risposta è sempre -perché no?-“, in cui lo stile è quello di chi ha intenzione di lasciare il contesto migliore di come lo ha trovato. Un gioco che diventa un business,  forward business.