Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Mi piace il lunedì

Lo devo scrivere oggi e non più tardi di oggi (anche per evitare di ricredermi domani): mi piace il lunedì! Anche se è il primo giorno della settimana e tutto sembra insormontabile, anche se è il giorno che segna la fine della festa e del relax, anche se è il giorno che ti ricorda i doveri e ti obbliga a dimenticare i piaceri. Al contrario del Vasco nazionale (“Odio i lunedì“), a me piace il lunedì. Il lunedì è il giorno in cui mi pare di avere tutto il tempo che voglio davanti. Lunedì è il giorno del futuro: hai tutta la settimana davanti per mettere in cantiere i tuoi progetti. Lunedì è tutto da iniziare, niente che hai lasciato indietro, niente che non puoi riprogrammare. Lunedì è l’inizio senza poter dire che sei finito: ho sempre la sensazione in questa giornata di avere delle chance in più, mi sembra quasi di poter gestire tempo ed energie. O almeno questo è il modo in cui mi piace affrontare l’inizio della settimana ed ogni lunedì, metaforico o reale che sia. Da dove viene questo “strano” entusiasmo? In realtà è solo questione di punti di vista, di sensazioni, di approccio. Mi spiego meglio con un esempio. Non sono un grande sciatore, anzi probabilmente qualcuno non mi definirebbe nemmeno come tale. Ho imparato a sciare (da intendersi come mera capacità di scendere le piste senza danni) solo poco tempo fa ed una cosa che bisogna imparare da subito è come affrontare le discese. La pendenza, solitamente fa paura, quantomeno mette sul “chi va là”. Sci ai piedi e pista lì sotto quello che viene da fare è tirarsi indietro, anzi buttarsi all’indietro. L’effetto che questa manovra (busto indietro, gambe avanti) provoca è quello di cadere. La mossa controintuitiva che è necessario imparare a fare è quella di portare il busto avanti: c’è la pendenza? Buttati! Ecco, il lunedì andrebbe affrontato come una discesa sugli sci: buttarsi. senza paura. La settimana è lì pronta per farci divertire: ed è tutta discesa! mi piace il lunedì

On line, off line, all line.

“Presente!”. Vi ricordate l’appello che si faceva a scuola, al quale bisognava rispondere singolarmente, a voce alta, con questa parola? Ecco, questo è quanto ci chiede di fare, quotidianamente, il mondo digitale. Tecnicamente, infatti, di solito si parla di “gestione della presenza online, o digitale”.

Il parallelo (sembra esagerato parlare di una metafora) con l’esperienza scolastica che tutti abbiamo fatto non è casuale: proviamo a vederne i motivi. A scuola dichiarare di essere presenti significava esserci (fisicamente), stare in mezzo agli altri; teoricamente poi, anche essere disposti ad interagire: fare o rispondere alle domande, chiacchierare con gli altri, intervenire, porre questioni, svolgere compiti individuali o di gruppo; ma anche essere giudicati ed essere chiamati ad esprimere un’opinione, approfondire un argomento, divenire competenti, essere giudicati (e non solo dai prof).

Questo setting è molto simile a quello presente nelle piattaforme di social networking. Anche nel caso dei social media si entra in un ambiente definito (certo, in alcuni casi molto vasto considerato che per esempio Facebook supera il miliardo di utenti). Ci sono delle regole, più o meno esplicite e di due generi: quelle tecnico-informatiche e quelle di comportamento. C’è un sistema di relazioni e di legami (deboli, forti, passeggeri) e la possibilità di interagire con gli altri. C’è la possibilità di mostrare e dimostrare le proprie competenze così come quella di essere giudicati dagli altri per quello che si esprime. Ci sono nuove cose da scoprire ed imparare così come è possibile fornire il proprio contributo agli altri.

Insomma il mondo dei social media non è poi così diverso o strano come può sembrare: si tratta solo di “connetterlo” (mai termine fu così azzeccato probabilmente) ad esperienze, conoscenze e capacità che abbiamo già acquisito. Così come si tratta di connettere la nostra vita offline a quella online: non sono due mondi paralleli e non è nemmeno questione di sdoppiamento della personalità. Non esiste una presenza on-line (cioè la definizione di una serie di strumenti e specifiche caratteristiche con cui un individuo rappresenta se stesso nella rete, un’identità digitale) che non sia strettamente correlata e integrata con quella off-line (la definizione di una persona così come l’abbiamo sempre conosciuta, con aspetti che riguardano la fisicità, il carattere, la psicologia, la relazione). Ecco perché negli ultimi tempi un altro termine si è affacciato nelle discussioni in tema di social network: all-line (che potrebbe essere tradotto con approssimazione come “su tutta la linea”). Anche se nato in tema di marketing digitale il termine vuole in qualche maniera esprimere in sintesi il concetto di una presenza integrata di ciascun individuo in ogni ambito in cui si muove, che sia esso mediato da strumenti informati o meno.

All-line significa proprio questo, poter dire quella stessa parola che si diceva a scuola all’inizio di ogni giornata: presente!

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Migliore

Cosa fa di un professionista il migliore del suo campo? Di un giocatore il migliore della sua squadra? Di un alunno il più bravo della classe? Di un leader un esempio per gli altri? Di un vincente un campione? Le ricette in merito si sprecano. C’è chi punta al carisma, dote innata e prerogativa solo di alcuni; c’è chi indica la preparazione, l’esercizio, l’allenamento come un percorso inevitabile per arrivare al successo.

A mio modo di vedere per essere il migliore bisogna innanzitutto capire: migliore di chi? di cosa? Limitare il campo, agganciare dei punti di riferimento, determinare un contesto nel quale decidiamo che vogliamo crescere. Ecco, perché si tratta di questo. Migliori si diventa attraverso un processo di crescita, continua, nell’ambiente in cui ci troviamo. L’ambiente è importante perché se più o meno tutti possiamo definirci “leader del settore“, a determinare se siamo i “migliori” sono gli altri: clienti, compagni di squadra o di scuola, colleghi e partner professionali, avversari (nei casi di fairplay), Insomma essere i migliori è anche una questione di fiducia e di reputazione.

La crescita ed il miglioramento continuo sono principi solitamente collegati, a torto o ragione, ad una dimensione spirituale, religiosa, metafisica. Ma, credo, non si debba cadere nell’errore di pensare che è una questione che ciascuno risolve con se stesso e basta. La spinta e la forza interiore che dobbiamo curare affinché possiamo essere migliori (a volte “i migliori”) ha bisogno di confrontarsi anche con aspetti e versanti molto concreti della nostra vita.

Faccio un esempio, molto poco spirituale; ma che a me ricorda parecchio questo processo di costruzione del miglioramento. Fino a qualche anno fa seguivo con un certo interesse le gare di Formula1 (come si vede siamo su di un livello di spiritualità vicino allo zero). All’epoca correva con la “rossa di Maranello” un pilota tedesco, Michael Schumacher. Una volta disse una cosa, a mio parere, molto interessante durante un’intervista. Mi colpì una parola in particolare: “push!” (“spingi!”). Disse che se la ripeteva ogni qualvolta si trovava da solo al comando di una gara. Affermava che, anche quando si poteva “rilassare” e gestire un comodo vantaggio, cercava sempre di migliorare il tempo, l’impostazione della curva, la prestazione. Correndo a volte dei rischi pur di migliorare. Una filosofia o, più semplicemente uno stile di vita, per migliorare sé stessi. Credo che a ciascuno di noi possa far bene qualche volta, soprattutto quando crediamo che non sia necessario, ripetersi: push!

Forma e sostanza: i contenuti nel web

Ho come l’impressione che si viva un tranello nel contrapporre, nelle dinamiche evolutive del web, la forma e la sostanza. Una pratica in realtà già ben presente in epoche e contesti diversi, soprattutto nell’era della comunicazione di massa (di cui il web è l’ultima manifestazione).  Marshal McLuhan teorizzò che il medium è il messaggio, ponendo così la questione che gli strumenti di comunicazione influenzano la percezione dei contenuti che trasmettono.

A mio modo di vedere esiste una sorta di ciclo di vita di ogni media che attraversa fasi diverse che potrebbero raccontarsi seguendo la dicotomia forma/contenuto: sperimentazione, adozione ed integrazione (una successione che ho ripreso, mutuandola, da quella che Vincenzo Cosenza propone per l’ingresso dei social media in azienda nel suo libro “Social Media ROI”). Alla prima fase, la sperimentazione, corrisponde un’incidenza dei contenuti blanda ma curata (pochi contenuti, di cui si è sicuri ma che si ritengono poco strategici). La seconda fase, quella dell’adozione, porta con sé contenuti tipici (dell’organizzazione, dell’azienda ma anche dell’individuo), legati ad un obiettivo specifico (ad esempio vendere, trovare un lavoro, proporre un progetto). L’ultima fase, quella dell’adozione, è caratterizzata da un consolidamento su di un certo tipo di contenuti che vengono però maggiormente trascurati, quasi dati per scontati. In questo che ho chiamato ciclo, i contenuti sono soggetti ad una attenzione che segue alti e bassi. In particolare la mia impressione è che quanto più ci si sente sicuri del mezzo (media), tanto più si allenta l’attenzione sui contenuti.

Non è esente da questo ciclo il web, inteso come mass-media: una dinamica che, penso, si può facilmente ritrovare nello sviluppo di alcuni business sul web: l’editoria, l’e-commerce, l’erogazione di servizi, i social media stessi nella loro vita singola e nella loro proliferazione. C’è chi, in questa fase, privilegia i contenuti che. giustamente, sono quelli che creano valore. Mi sento di dire che, in realtà, i contenuti andrebbero calibrati rispetto agli obiettivi e mantenuti quanto più possibile costanti. Quando si scrive una pagina web (blog, sito aziendale, pagina social, ecc,) bisogna tener in considerazione che questa ha tecnicismi propri (link building, tecniche di scrittura, strutturazione, call to action, engagement, ecc.) dietro i quali non bisogna rischiare di perdersi e perdere di vista i contenuti. La forma (anche quella dettata dal marketing)  è determinante, ma senza contenuto rischia di essere sterile sul lungo periodo. Uno scrittore a me molto caro ha scritto un romanzo il cui titolo, in questo senso, è illuminante: la forma dell’acqua. L’acqua, spiega uno dei personaggi, non ha nessuna forma, prende quella del contenitore in cui viene messa.  Ma la domanda successiva, che non c’è nel romanzo, ma che dovrebbe farsi chi usa il web per comunicare è: chi vuole un contenitore senz’acqua?

Reputation (il personal branding in un bacio)

Il personal branding è l’attività che ci permette di avere una certa notorietà (anche se il termine non è proprio corretto) in un certo contesto. Oggi, utilizzare strumenti tipicamente pubblicitari è alla portata di tutti: la “fama” gira nella rete e così ciascuno di noi, con qualche competenza tecnica ed informatica, può diventare una specie di Armando Testa nel suo piccolo.

Quello però che non si fa (e che non è proprio facile da realizzare, perlomeno non è istantaneo) è costruire qualcosa dietro la facciata della pubblicità. Perché se il personal branding si ferma alle attività superficiali (come una bella grafica del sito od una foto strabiliante) rischia di divenire solo un’apparizione che si sfoca velocemente nelle menti della maggior parte delle persone.

Ciò a cui non si bada è la reputazione: come la si costruisce? Cosa fa sì che il nostro marchio (brand) possa avere un valore solido e non così fragile da perdersi nel giro di pochissimi istanti? Sicuramente la preparazione, la competenza ed un lavoro portato avanti con disciplina e determinazione. Come dice Paolo Manocchi siamo abituati a pensare al motto “l’abito non fa il monaco” guardando solo ad una faccia della medaglia: o solo la forma, o solo la sostanza. Invece sono due facce che viaggiano necessariamente insieme, vicine, si toccano, si baciano.

A proposito di baci. Mentre scrivo sta facendo scalpore l’ultima campagna di Benetton (ritirata) con i baci scambiati tra personalità importanti del mondo. Quale forma e quale sostanza? Quale reputazione? La trovata pubblicitaria (forma) è sicurmaente di impatto non fosse altro per il fatto che è stata ripresa dalle testate di tutto il mondo; ma, forse, come fa notare anche l’Independent la questione (sostanza) è un’altra e riguarda i conti, non troppo brillanti, della casa di moda.

Come scrive la rivista Internazionale “le provocazioni non sono più una novità, e forse non sono sufficienti a convincere i consumatori”. Soprattutto se, poi, a guardar bene, sono anche delle cover .