Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Calma ed entusiasmo

Torno a scrivere sul blog quando ci sono cose che mi sembrano possano essere condivise con qualche interesse (reciproco). Nonostante le intenzioni questo avviene con una frequenza minore rispetto a quello che mi piacerebbe. Me ne faccio una ragione, in virtù del fatto che, di converso, sto lavorando a molte cose che mi entusiasmano. Una fra queste è un altro libro edito da Hoepli che si occuperà proprio di blog (ecco, così l’ho scritto anche qui).

Voglio condividere questa riflessione: la calma e l’entusiasmo possono essere due facce della stessa medaglia? Mi spiego meglio. I social media che ormai frequentiamo con assiduità e sempre maggior costanza pullulano di “news”: da lì arrivano un sacco di novità strabilianti soprattutto da sedicenti pionieri dei più svariati argomenti. Quello che noto è una specie di agitazione e ansia da prestazione generalizzata:  deve esserci in corso una sorta di gara a chi porta per primo l’ultima novità. Ho idea insomma che il mondo digitale sia sottoposto ad accelerazioni improvvise (che non sempre fanno bene).

Per farmi meglio capire con qualche esempio: non abbiamo nemmeno fatto in tempo a capire tutti che cosa fosse il personal branding che è già maleducazione dirlo; stavamo ancora lì a vedere di fare storytelling quando invece dovevamo già essere pronti per la content curation; l’inbound marketing era qui un attimo fa, ma tra poco non lo vedi più nemmeno dietro l’angolo. Perdonate la grossolanità del tutto. So benissimo che dietro a questi termini, in realtà, ci possono essere (e ci sono) tematiche importanti. Non è quello su cui discuto.

Semmai vorrei essere critico sul modo e la velocità con cui vengono date in pasto al pubblico (di settore e non solo). Non è che qualche volta lo si deve fare per apparire nuovi piuttosto che per portare un contenuto originale? Credo, ma potrei sbagliarmi, che ci sia un generale, innaturale e ingiustificato entusiasmo per delle piccole, banali e trascurabili cose. Pur interessandomi di questi temi e cercando di stare al passo coi tempi, quello che non riesco a sposare (in senso figurato) è l’eruzione continua ed incessante con cui ogni giorno nascono novità (che se poi vai a vedere bene molte non sono nemmeno così nuove).

A me piacerebbe che il tutto fosse condito con una puntina di calma zen, ma proprio un pizzico. Sballottarci da una parte all’altra, peggio ancora se alla ricerca di continue conferme, non ci fa bene. Calmiamoci. Calma ed entusiasmo possono essere due facce della stessa medaglia che si chiama equilibrio. Oooooṃm!

On line, off line, all line.

“Presente!”. Vi ricordate l’appello che si faceva a scuola, al quale bisognava rispondere singolarmente, a voce alta, con questa parola? Ecco, questo è quanto ci chiede di fare, quotidianamente, il mondo digitale. Tecnicamente, infatti, di solito si parla di “gestione della presenza online, o digitale”.

Il parallelo (sembra esagerato parlare di una metafora) con l’esperienza scolastica che tutti abbiamo fatto non è casuale: proviamo a vederne i motivi. A scuola dichiarare di essere presenti significava esserci (fisicamente), stare in mezzo agli altri; teoricamente poi, anche essere disposti ad interagire: fare o rispondere alle domande, chiacchierare con gli altri, intervenire, porre questioni, svolgere compiti individuali o di gruppo; ma anche essere giudicati ed essere chiamati ad esprimere un’opinione, approfondire un argomento, divenire competenti, essere giudicati (e non solo dai prof).

Questo setting è molto simile a quello presente nelle piattaforme di social networking. Anche nel caso dei social media si entra in un ambiente definito (certo, in alcuni casi molto vasto considerato che per esempio Facebook supera il miliardo di utenti). Ci sono delle regole, più o meno esplicite e di due generi: quelle tecnico-informatiche e quelle di comportamento. C’è un sistema di relazioni e di legami (deboli, forti, passeggeri) e la possibilità di interagire con gli altri. C’è la possibilità di mostrare e dimostrare le proprie competenze così come quella di essere giudicati dagli altri per quello che si esprime. Ci sono nuove cose da scoprire ed imparare così come è possibile fornire il proprio contributo agli altri.

Insomma il mondo dei social media non è poi così diverso o strano come può sembrare: si tratta solo di “connetterlo” (mai termine fu così azzeccato probabilmente) ad esperienze, conoscenze e capacità che abbiamo già acquisito. Così come si tratta di connettere la nostra vita offline a quella online: non sono due mondi paralleli e non è nemmeno questione di sdoppiamento della personalità. Non esiste una presenza on-line (cioè la definizione di una serie di strumenti e specifiche caratteristiche con cui un individuo rappresenta se stesso nella rete, un’identità digitale) che non sia strettamente correlata e integrata con quella off-line (la definizione di una persona così come l’abbiamo sempre conosciuta, con aspetti che riguardano la fisicità, il carattere, la psicologia, la relazione). Ecco perché negli ultimi tempi un altro termine si è affacciato nelle discussioni in tema di social network: all-line (che potrebbe essere tradotto con approssimazione come “su tutta la linea”). Anche se nato in tema di marketing digitale il termine vuole in qualche maniera esprimere in sintesi il concetto di una presenza integrata di ciascun individuo in ogni ambito in cui si muove, che sia esso mediato da strumenti informati o meno.

All-line significa proprio questo, poter dire quella stessa parola che si diceva a scuola all’inizio di ogni giornata: presente!

online-offline-allline

Contatto!

Come incontriamo e come incontreremo in futuro i clienti? Per chi si occupa di nuove comunicazioni digitali la risposta immediata è (o dovrebbe essere): in maniera digitale. Ma credo che questa risposta rischia di essere solo parzialmente vera, perlomeno nel futuro più prossimo.  C’è una parte “fisica” nell’incontro con i clienti che ha ancora un suo valore: a volte marginale, altre volte più profondo (e questo dipende molto anche dal prodotto e dal servizio proposto).  Lo scrivo pensando all’esperienza di Tesco in Corea del Sud oppure al pannello di SunnySale per le vendite istantanee in strada attraverso la tecnologia del QRcode. Bene, entrambe, pur essendo dinamiche di contatto con i clienti basate prevalentemente sul digitale, hanno in comune anche un touchpoint fisico.

Credo che il punto di contatto con la clientela rimanga una leva essenziale nel successo delle vendite. Ancor di più se, diversamente da questi due casi, il momento di incontro tra cliente e prodotto (servizio) avviene attraverso la mediazione di una persona. Quanto incide in questo senso la competenza di quella persona? Quanto il layout in cui l’incontro avviene? Quanto la possibilità di interagire e di continuare a farlo nel tempo con quello stesso soggetto? Quanto si gioca in questo frangente la fidelizzazione della clientela? Tutti i servizi e le attività che hanno una front-line (touchpoint se preferite) hanno un pubblico di clienti che li stanno aspettando.

Che cosa significa questo? Sostanzialmente che è necessario mettere in piedi una strategia di sviluppo di tutti questi punti di contatto. Una strategia di sviluppo che ha, a mio modo di vedere, una parola chiave importante: accoglienza. Significa che gran parte del successo nel contatto con i clienti in un punto fisico si gioca sull’abilità nel poter essere riconosciuti come uno spazio accogliente, confortevole, piacevole (e vale per l’estetica, il layout, la gentilezza del personale). Mi pare poi di poter individuare in ottica di sviluppo di questi spazi tre direttrici: una che riguarda la dimensione o, meglio, la multidimensione; una che riguarda l’individuo (cliente), una terza che insiste sullo spazio fisico vero e proprio.

Relativamente alla prima credo che non serva aggiungere granché a quanto gli esempi di Tesco e SunnySale sopra citati già dicono da soli: la ricetta è quella di immaginare sempre un update digitale (mi piace definirlo così) dell’ambiente fisico in cui il cliente si trova; una sorta di realtà aumentata (non è un patrimonio dei soli beni culturali e architettonici) immediata e convincente che possa aumentare il livello di engagement del cliente. Rispetto a quest’ultimo faccio una considerazione che riguarda la seconda direttrice sopra citata: entriamo in contatto con un individuo e non solo con un acquirente. La logica delle persone e delle relazioni proclamata come efficace all’interno dei social media va riportata anche in questi spazi: sempre più spesso capiterà che il cliente ci avrà conosciuto prima di incontrarci, ma il valore virtuale della relazione è dato dalle persone reali. Ultima direttrice è quella dell’utilizzo degli spazi. Credo che la logica del coworking (molto di moda in questo periodo) insegni qualcosa di più ampio ed interessante della semplice, si fa per dire, economia degli spazi e contaminazione delle competenze. Insegna, a mio modo di vedere, che c’è un gran bisogno da parte del pubblico di utilizzare e vivere gli spazi in maniera condivisa: una condivisione che può diventare anche possibilità di rileggere, modificare e ricostruire a proprio piacimento lo spazio di contatto; una sorta di personalizzazione che passa dal prodotto allo spazio in cui il prodotto è proposto. I touchpoint, insomma, rappresenteranno il trionfo della social-medialità.

[nel mio spazio su Slideshare trovate una presentazione che riprende alcuni di questi spunti]

contatto

Social media coaching

Accompagnare le aziende, trasformare la consulenza in un supporto per creare storytelling“: non si potrebbe descrivere meglio il lavoro che anche personalmente sto cercando di fare con chi mi chiede di utilizzare i social media (e la comunicazione on line in generale). La frase che ho sentito all’ultimo Social Media Marketing Day qualche giorno fa. Ma perché piuttosto che fare consulenza (e formazione) è più vantaggioso adottare un approccio che assomiglia più ad un coaching che ad un’erogazione di un servizio diretto?

Innanzitutto un chiarimento: si tratta di cambiare l’approccio e non di cambiare i servizi (compresi quelli delle più classiche agenzie di comunicazione). Il motivo è che il marketing fatto con i social media risponde a criteri che sono più adatti ad un approccio relazionale che non ad uno connesso con l’advertising più tradizionale. Significa che sulle piattaforme di networking non si può solo fare pubblicità, bisogna costruire relazioni; non è sufficiente essere un’organizzazione, bisogna far vedere le persone (facce comprese) che la compongono.

Ecco perché credo che il percorso di adozione di una comunicazione su web, sui social media in particolare, abbia bisogno, in qualche caso, di essere accompagnata e supportata in modo da poter essere veramente integrata. Non sto parlando di un’integrazione con tutto il resto della comunicazione aziendale; intendo un’integrazione profonda e reale con tutta l’organizzazione. Un processo di comunicazione che parte dai valori ed arriva agli obiettivi. Come giustamente ha fatto notare Nicola Palmarini di IBM durante l’incontro a Milano “ogni azienda è un’azienda pubblica, il marketing non è un messaggio ma un comportamento“.

Ci sono almeno tre motivi validi perché questo tipo di impostazione, a mio modo di vedere, risulta essere vincente. Il primo motivo è che le azioni online (presenza sui social media, gestione di un blog, strategie di engagement) devono necessariamente sfociare sul territorio, avere una rilevanza “fisica”, “hardware”, “in presenza” o in qualunque maniera la si voglia chiamare. Se non altro per concretizzare gli sforzi fatti e rendere percepibili i risultati degli investimenti anche al cliente meno abituato a qualcosa di troppo intoccabile (perlomeno in Italia).

Il secondo motivo è che sono le persone a fare la differenza. Questo vale in due direzioni. La prima, quella maggiormente legata ad un discorso di comunicazione attiva: una tecnica adatta e funzionante sulle piattaforme social è quella dello storytelling; e sono molto più interessanti le storie delle persone piuttosto che quelle delle aziende e delle organizzazioni (ed in realtà è sempre stato così). La seconda direzione è quella più strettamente legata alle vendite: “il consumer journey è divenuto molto più complesso di un tempo perchè il mondo digitale ha aumentato a dismisura i touch-point tra cliente e produttore” (come giustamente ha fatto notare Roberto Liscia di Netcomm). L’implicazione maggiore è che i comportamenti online modificano quelli offline (i consumatori cercano consensi per i loro acquisti), il valore passa dalla parte del compratore (i social network arricchiscono l’esperienza di acquisto),  il brand crea fiducia solo attraverso le persone.

Il terzo motivo è legato ad una parola molto importante in questi ambienti: autenticità. Un fattore di fondamentale successo da qui in avanti sarà quello legato alla capacità delle organizzazioni di focalizzarsi sui valori fondamentali delle loro imprese (piccole o grandi che siano, perché da questo processo nessuno è escluso), di condividere questi valori con le persone che sono all’interno dell’organizzazione (partendo già dai processi di selezione mi verrebbe da dire), di abilitare quante più di queste a comunicarle all’esterno (nell’era dei social media ciascuno di noi è una piccola agenzia di comunicazione), di ascoltare cosa e quanto si dice all’esterno, di costruire una storia autentica, credibile e avvincente per raccontare il proprio prodotto e servizio.

Questo percorso penso di poterlo chiamare social media coaching e credo di poter dire che sarà, da qui in avanti, una buona strategia  per poter adottare i social media e tutto il resto della comunicazione on line con semplicità, efficacia, autonomia, lungimiranza (per chi vuole, questa è la pagina per contattarmi ed avere qualche altra informazione e consiglio).

social media coaching

Comunicazione flash e spinaci tra i denti

Quanto è efficace una comunicazione veloce, istantanea, virale? Dipende chiaramente dall’obiettivo ma il rischio di misunderstanding è piuttosto alto. Così come la possibilità di far circolare false informazioni (o miti). Un esempio recente lo è la diffusione di informazioni relative ad avvenimenti drammatici che riguardano la vicina Grecia (come in questo ormai famoso post): solo dopo una successiva analisi delle fonti, fatta in questo blog, si scopre che in realtà molte delle informazioni comunicate originariamente sono quantomeno manipolate od addirittura frutto di fantasia.

Al di là di quello che  può essere un giudizio etico-professionale su chi diffonde false o artefatte informazioni (di cui qui non si tratta), c’è una questione che riguarda l’efficacia e la tempestività della comunicazione e di come questa possa essere distribuita in maniera veloce anche da chi, più o meno consapevolmente, non fa alcuna verifica delle fonti. O, se lo fa, si basa su fattori che ne determinano la qualità in maniera “originale”. Faccio un esempio. Quando ho fatto notare, nell’ennesima bacheca di Facebook, che la notizia sulle condizioni in cui versa la Grecia non fosse proprio attendibile mi è stato risposto che era stata postata perché apparsa in siti più o meno appariscenti. Ecco mi ha colpito la parola “appariscenti”.

La riflessione che voglio fare qui è quindi su come la visibilità possa condizionare la percezione che abbiamo dei contenuti veicolati. Se come dice l’amico Paolo Manocchi, “l’abito in realtà fa il monaco”, accade anche che la “veste” che viene data ad un certo tipo di comunicazione ne determini non solo il successo (in termini di raggiungimento di pubblico, come evidentemente avviene e deve avvenire nei meccanismi pubblicitari) ma anche l’attendibilità e la conseguente propagazione virale. Questo meccanismo è alla base del marketing sui social media e funziona anche perché trova, spesso, un pubblico facilmente influenzabile con la forma e meno attento ai contenuti. Si tratta di una manifestazione differente di quella che gli americani chiamano teeth-spinach-effect: ad un congresso anche il più bravo e preparato relatore se parla con uno spinacio fra i denti sortirà l’effetto non voluto di essere ricordato, dalla maggior parte dei presenti, per questa simpatica anomalia dentale e non per quello che ha detto.

Il punto è che, soprattutto nella comunicazione web, il teeth-spinach-effect potrebbe anche non essere un inconveniente, un errore, una sbadataggine, un effetto non voluto. La “distrazione” (se così la si vuole chiamare) è tanto più sottile, nascosta, irriconoscibile come tale tanto più la comunicazione è veloce ed immediata. Come tante altre è una tecnica non nuova per i professionisti della comunicazione a cui non bisogna dare una connotazione negativa (dipende essenzialmente con che obiettivi viene utilizzata): come spesso accade spesso la consapevolezza è la migliore delle medicine. L’importante, infatti, è guardarsi allo specchio prima di parlare e decidere: magari può anche capitare di non avere granché da dire ed in quei casi magari una foglia di spinacio può avere più successo di mille parole.

spinach effect