Una cosa che mi è rimasta impressa dalla mia educazione scout è legata alla modalità migliore da adottare per aiutare gli altri. Ai tempi in cui dal nostro continente partivano con una certa frequenza carichi di aiuti umanitari per il terzo mondo una considerazione fu illuminante: sarebbe stato più utile dare a migliaia di persone qualcosa per sfamarsi oggi o la possibilità, gli strumenti e le competenze per farlo per il resto della vita? Probabilmente entrambe le cose. Ma, allora, non era così immediato pensare che la seconda ipotesi sarebbe stata quella più utile (per tutti). Il concetto è quello di valorizzare non tanto la quantità e la qualità di beni e strumenti messi a disposizione, quanto l’apporto di competenze, conoscenze, capacità e voglia di di imparare.
Ma se il concetto è valido per chi ha bisogno lo è altrettanto all’interno delle organizzazioni che sarebbe forse preferibile cominciare a pensare più come comunità che come risorse umane. Un buon sistema ha bisogno di essere alimentato con il “saper fare” e con una sorta di “educazione” alla buona convivenza. La cooperazione tra persone che apportano competenze può essere la base per vincere sfide complesse e avvincenti: il paragone è quello, ormai abusato, con l’automobile. Possederne una (performante) ma non avere la patente è inutile; e viceversa. Ed entrambe sarebbero superflue senza carburante. Il carburante delle organizzazioni concepite in questo modo è la fiducia. La collaborazione è facilitata da meccanismi di fiducia: il principio per cui il singolo agisce a favore della collettività (dell’organizzazione, degli altri) non è quello di un buonismo o di un altruismo oltre ogni cosa; ma una sorta di egoismo virtuoso per cui se faccio bene la mia parte anche gli altri faranno bene la loro e me ne avvantaggerò a mia volta. C’è da chiedersi se sia possibile instaurare, anche all’interno delle aziende, un meccanismo virtuoso per il quale la fiducia reciproca diventi una leva positiva.
Torna l’esigenza quindi di fondare le regole sui valori e non il contrario. Costruire un’organizzazione sui valori significa questo: non avere bisogno di regole per forzare i comportamenti delle persone che vi appartengono ma soltanto di quelle che sono diretta espressione (proiezione direi) del sistema valoriale condiviso (anche in azienda). A me sembra che questo sia anche un modo di considerare che possa esistere non un uomo, ma un’umanità al lavoro.