Francesco Vernelli

comunicazione, web, marketing

Come suonare la chitarra

Non so se tra di voi che leggete c’è qualcuno che ha imparato a suonare la chitarra. Il sottoscritto l’ha sempre inserita tra le attività da mettere in cantiere alla voce “hobby e passioni” dopo averla tenuta per tempo nella sezione “crucci di cose che non hai fatto quando eri più giovane”. Ad ogni modo sempre nella sfera delle cose immaginarie, mai finita in quelle reali. Conosco chi suona la chitarra e tendenzialmente sono persone che lo fanno piuttosto bene (nessun artista famoso, comunque). Suonare la chitarra mi sembra una cosa molto bella e al tempo stesso abbastanza facile da imparare: povero ingenuo (che sono).

Sto lavorando ad un progetto editoriale (devo scrivere) e per farlo mi capitano sottomano diverse cose interessanti (devo leggere!): una di queste riguarda proprio la chitarra e il percorso da intraprendere per arrivare a suonarla in maniera decente (diciamo suonare un qualcosa che assomigli ad una canzone piuttosto che ad uno strimpellio fastidioso).Ho letto che il percorso per suonare la chitarra più o meno si articola così: la prima volta con una certa goffaggine si cerca di appoggiare le dita in maniera innaturale lungo la tastiera, poi si cerca di coordinare l’altra mano che deve far scorrere il plettro lungo le corde, poi bisogna imparare a spostare in maniera coordinata le dita sulla tastiera da una corda ad un altra ed infine fare il tutto insieme seguendo un ritmo, degli accordi, una melodia. Qual è il problema? Il fatto è che io ne ho visti di alcuni principianti (a cui vanno rispetto ed ammirazione) e l’inizio è davvero mortificante: si fa fatica a fare quelle mosse e non si ottiene nulla, neanche un suono decente.

Se impariamo a suonare la chitarra, finché non arriviamo all’ultima fase (quella in cui riusciamo a coordinare entrambe le mani lungo le corde) il nostro impegno e i nostri sforzi non sono ripagati quasi per nulla da risultati soddisfacenti. Insomma i primi passi per suonare la chitarra sono davvero a prova di resistenza. Chi arriva alla fine sperimenta una dote che secondo me è molto importante: la perseveranza. Ecco, chi suona la chitarra ed ha imparato seguendo il percorso che ho descritto sicuramente ci ha messo una buona dose di perseveranza. E non sono poi così in molti ad averla (perlomeno in questa arte): sempre stando a quanto ho letto, fatti 100 i neofiti delle strumento, solo 6 arrivano al risultato di riuscire a suonare una canzone (nella maggior parte dei casi, in Italia, è la “Canzone del sole”).

Ho capito allora che quello che mi serve per imparare a suonare la chitarra non è tanto un’attrazione per la musica o lo strumento ma un po’ di allenamento in termini di perseveranza. Una dote che in realtà mi riconosco (i più cattivi descrivono la mia come vera e propria cocciutaggine) ma che probabilmente non ho mai messo tra il novero delle skill per raggiungere questo obiettivo. Ho capito anche un’altra cosa: certe arti (anche se non lo sono teoricamente) ci fanno vedere la parte bella ed attraente, nascondendo il percorso duro e pieno di sacrifici che serve per arrivarci., Anche la vita, professionale e non, è un po’ come suonare la chitarra: per farci sentire qualche bell’accordo e provare soddisfazione, ci fa passare per strimpellate e delusioni. Ma il trucco è semplice, basta perseverare.

Perché lo fai?

Vi è mai capitato di realizzare un’impresa? Non intendo l'”attività economica organizzata ai fini della produzione o dello scambio di beni o di servizi” (anche se poi ci sarà un motivo per cui si chiama così). Quello che intendo è una attività che vi ha richiesto risorse ed energie oltre i vostri limiti, che vi ha spinto ad andare oltre la routine, che vi restituito orgoglio, fierezza e coraggio. Se vi è capitato e converrete con me che si prova una sensazione bellissima. Ma quello che mi chiedo è: perché lo facciamo?

Non so darne una spiegazione scientifica (medica, psicologica) anche se so perfettamente che c’è anche qualcosa che ha a che fare con la chimica del nostro corpo e con la disposizione del nostro cervello, della nostra parte emotiva. Ma quel che posso dire è raccontare i miei perché, le mie motivazioni, le mie sensazioni. E sarà anche l’ultima volta che parlo della maratona, lo giuro 🙂

Per rispondere alla domanda “perché lo fai?” devo partire dall’inizio, dall’obiettivo. Se c’è una cosa che rende entusiasmante un’impresa fin dall’inizio è la scelta dell’obiettivo: troppo lontano per essere a portata di mano, ma abbastanza vicino, raggiungibile da farti pensare ogni giorno che ce la puoi fare. Con un po’ di esercizio, allenamento, pratica quello che fino a ieri non credevi fosse possibile diventa invece a portata di mano. La seconda grande motivazione è proprio l’esercizio, il miglioramento continuo, la soddisfazione continua di toccare con mano che le cose in cui ti applichi poi ti vengono sempre un po’ meglio: capita sempre, dalla scuola allo sport, che questo processo oltre a migliorare le nostre competenze ci migliora anche un po’ come persone. Quel che mi capita è che le energie impiegate nell’esercizio si trasformano sempre in un qualche risultato. Ed è lì che arriva quella che per me è la terza risposta alla domanda “perché lo fai?”.

Ma che gusto è raggiungere un obiettivo? Che gioia, mi verrebbe da dire, rappresenta il traguardo? Credo che sia uno di quei momenti di felicità vera che nessuno dovrebbe negarsi. La soddisfazione, quell’emozione che accompagna il raggiungimento di una meta, è il più energetico dei carburanti che possiamo utilizzare. Quando la scorsa domenica, alla mia prima maratona, sono arrivato al 37esimo chilometro (a 5 km e poco più dalla fine) avevo fame. Non era bisogno di cibo, avevo fame di soddisfazione, la volevo a tutti i costi, non vedevo l’ora di raggiungerla. E sapevo che mi aspettava lì, al traguardo, all’obiettivo per il quale mi ero esercitato. Così, anziché rallentare conservando le energie ho spinto più forte, ho allungato il passo per quel che potevo estraendo a forza le ultime energie che avevo in corpo. Sono arrivato stanchissimo ma felice, strafelice, felice da piangere.

Perché lo fai? Perché realizzare un’impresa è emozionante!

Multiple People Injured After Explosions Near Finish Line at Boston Marathon

 

Genuina, fresca e gustosa (ma non si mangia)

Una delle maggiori difficoltà nell’introduzione di strumenti innovativi in una organizzazione è la convinzione che le cose fatte sempre nella stessa maniera siano quelle “giuste”. Soprattutto se certe modalità, stili, procedure, ragionamenti sono stati in passato confortati dai risultati. “Abbiam sempre fatto così” è la risposta istintiva, naturale e comprensibile di chi cerca di trovare una giustificazione ai primi eventuali, inaspettati e inspiegabili insuccessi. Un mio amico americano (di adozione) una volta mi fece notare questa frase: “the vision of changing world changes the vision of the world“. Forse è partendo da qui che un ristorante (Cantina Langelina) ha deciso di avere come primi clienti un gruppo di soggetti social media addicted, con esperienze e competenze diversificate.

La storia l’han raccontata altri, meglio di come potrei fare io, parlando di testimonial due punto zero (il blog Saponetteverdi) e di mossa strategica (come nello Storify di LunaMargherita); oppure raccontando come è nata una cena che è diventata marketing (Cristiano Carriero). Di questa esperienza, di cui sono stato felice e divertito partecipante, vorrei evidenziare alcuni elementi che, a mio parere, sono significativi per quello che riguarda possibili nuovi approcci e strategie comunicative (dei piatti e della bontà della cucina parlano le foto che ho fatto, #langelina). E siccome stiamo parlando di cucina e cibo tratterò l’argomento come se fosse una pietanza. Una strategia di marketing che, come una pietanza, definirei genuina, fresca e gustosa.

Genuina perché la selezione dei partecipanti non è stata inquinata, a quanto ne sappia, da logiche di scambi o da interessi legati al contenuto della proposta (il cibo o la cucina). Semplicemente e paradossalmente sono stati scelti partecipanti che avessero una qualche dimestichezza con i social media, uno smartphone a disposizione e la capacità di comunicare in qualche modo quello che stava accadendo (od era accaduto, come in questo post). In cambio di una cena che, sono certo, non è sufficiente ad inquinare il loro giudizio sulla cucina (ma non credo fosse questo ilvero obiettivo).

Fresca perché rappresenta una modalità di marketing (sempre che lo si possa chiamare così) piuttosto innovativa. Mi verrebbe da dire che è quasi un uso “estremo” della tecnica dello storytelling: non raccontiamo il prodotto (servizio) ma tutto quello che accade quando le persone (e non gli esperti di turno) interagiscono con quel prodotto (servizio). L’idea è che sia più interessante (e affascinante) ascoltare e vedere quel che accade quando alcuni potenziali clienti (sempre che li si possa chiamare così) interagiscono tra loro e con il prodotto (servizio). In questo senso i social media non sono altro che una finestra aperta dalla quale il resto del mondo può vedere quel che accade.

Gustosa perché è limpido e trasparente che il tutto è stato amichevole, divertente, allegro. La costruzione delle reti che avviene in questo modo (interne, tra i partecipanti, ed esterne, dei partecipanti con i loro contatti) è in qualche modo, per rimanere in tema, “appetitosa”: viene voglia di assaggiarla, di entrare a far parte del gioco, di rimanere collegati. Insomma, quando vediamo qualcuno che si diverte pensiamo di poterci divertire anche noi. Chiamatelo pure, se volete, engagement.

Ora la domanda che mi pongo alla fine di questo post è: volendo paragonare questa forma di promozione con un’altra più tradizionale che tipo di conclusioni se ne potrebbero trarre? Faccio un esempio: una brochure. Quale brochure avete mai assaggiato? E, soprattutto, quale brochure avete trovato genuina, fresca e gustosa?

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Migliore

Cosa fa di un professionista il migliore del suo campo? Di un giocatore il migliore della sua squadra? Di un alunno il più bravo della classe? Di un leader un esempio per gli altri? Di un vincente un campione? Le ricette in merito si sprecano. C’è chi punta al carisma, dote innata e prerogativa solo di alcuni; c’è chi indica la preparazione, l’esercizio, l’allenamento come un percorso inevitabile per arrivare al successo.

A mio modo di vedere per essere il migliore bisogna innanzitutto capire: migliore di chi? di cosa? Limitare il campo, agganciare dei punti di riferimento, determinare un contesto nel quale decidiamo che vogliamo crescere. Ecco, perché si tratta di questo. Migliori si diventa attraverso un processo di crescita, continua, nell’ambiente in cui ci troviamo. L’ambiente è importante perché se più o meno tutti possiamo definirci “leader del settore“, a determinare se siamo i “migliori” sono gli altri: clienti, compagni di squadra o di scuola, colleghi e partner professionali, avversari (nei casi di fairplay), Insomma essere i migliori è anche una questione di fiducia e di reputazione.

La crescita ed il miglioramento continuo sono principi solitamente collegati, a torto o ragione, ad una dimensione spirituale, religiosa, metafisica. Ma, credo, non si debba cadere nell’errore di pensare che è una questione che ciascuno risolve con se stesso e basta. La spinta e la forza interiore che dobbiamo curare affinché possiamo essere migliori (a volte “i migliori”) ha bisogno di confrontarsi anche con aspetti e versanti molto concreti della nostra vita.

Faccio un esempio, molto poco spirituale; ma che a me ricorda parecchio questo processo di costruzione del miglioramento. Fino a qualche anno fa seguivo con un certo interesse le gare di Formula1 (come si vede siamo su di un livello di spiritualità vicino allo zero). All’epoca correva con la “rossa di Maranello” un pilota tedesco, Michael Schumacher. Una volta disse una cosa, a mio parere, molto interessante durante un’intervista. Mi colpì una parola in particolare: “push!” (“spingi!”). Disse che se la ripeteva ogni qualvolta si trovava da solo al comando di una gara. Affermava che, anche quando si poteva “rilassare” e gestire un comodo vantaggio, cercava sempre di migliorare il tempo, l’impostazione della curva, la prestazione. Correndo a volte dei rischi pur di migliorare. Una filosofia o, più semplicemente uno stile di vita, per migliorare sé stessi. Credo che a ciascuno di noi possa far bene qualche volta, soprattutto quando crediamo che non sia necessario, ripetersi: push!

Idee e coraggio in un cucchiaio

Lo stile sta tutto in un cucchiaio. E non è lo slogan di una qualche azienda produttrice di articoli per la casa e il cucchiaio non è quello per la minestra, ma il noto tocco “delicato”  al pallone che si usa per ottenere quella traiettoria a parabola lenta e inesorabile. Premetto: non sono un gran tifoso di calcio e, soprattutto, non lo seguo con costanza da molti anni. Per dare un’idea, i rigori di Italia – Inghilterra (Europei 2012) li ho visti la mattina del giorno successivo a quello della partita.  In quell’occasione (ho poi scoperto che ce ne sono state almeno altre sette) un giocatore della nazionale (Andrea Pirlo) decide di tirare un rigore decisivo (quello che, se sbagliato, avrebbe condannato la squadra alla sconfitta) con questa “insolita” tecnica.

Secondo me un gesto dal quale si può imparare qualcosa. In quel rigore tirato a quel modo c’è tutto ciò che serve per fare una scelta, per cambiare, per prendersi la responsabilità di ciò che accadrà successivamente. Ci sono l’idea ed il coraggio necessario a portarla avanti. Ci sono l’impertinenza e la sfrontatezza di affrontare una crisi con una sicurezza all’apparenza troppo avventata; il gesto di chi, per amore dello stupore (o forse solo perché capisce che è l’unica possibile soluzione), si prende il rischio di finire, dopo un attimo, tra gli osannati o tra i condannati. Non c’è una possibile via intermedia: le stelle o le stalle, l’inferno o il paradiso, le lodi o le critiche. C’è chi in quel momento fa tutto secondo le regole, segue il “manuale” (semmai ce ne fosse uno sempre a disposizione). C’è chi invece tenta un’altra strada, uno stile diverso, un pensiero diverso.  Ecco, per uscire da una crisi (da una situazione critica), servono le idee ed il coraggio di perseguirle.

Quella di Andrea Pirlo non è solo un’alzata di ingegno, è uno stile di vita. Non è solo classe, è la “pazzia” sorprendente di chi riesce a non rimaner legato agli schemi. Non è improvvisazione però, sono convinto che è preparazione; non è la creatività del momento ma la tenacia di averci provato un sacco di volte. Sono convinto che il “cucchiaio” lo abbia provato un sacco di volte. Così come sono convinto che non è da tutti; ma non perché il giocatore in questione è un fenomeno. Semplicemente perché di metodi ce ne sono anche altri, di modi di calciare efficaci ugualmente, di strumenti e trucchi a migliaia. Ma di stile uno solo. Ed è lo stile di chi si prepara, di chi si allena per quel “colpo”, di chi si concentra ed ha ben in mente quello che sta per fare, di chi sceglie il momento giusto per tirar fuori uno degli assi che ha nella manica. Lo stile di chi ha un’idea ed il coraggio di portarla avanti fino in fondo. E può stupire migliaia di persone.