Mi ricordo che una volta (o ancora oggi?) il titolo di “dottore”, ancor prima di essere una qualifica in senso tecnico (propria di chi aveva completato con successo gli studi accademici) lo era in senso sociale, relazionale, gerarchico se andiamo abbastanza indietro negli anni.
Il “dott”, e la “dott.ssa” naturalmente, era colui (o colei) che, al di là delle competenze sviluppate o meno, aveva già in quel suffisso tutto il potere di agire con maggior rispetto e, quel che più importante, senza tema di smentita (almeno pubblica o palese). Il progresso e la diffusione dell’università ad una popolazione più vasta hanno poi svalutato il titolo accademico, ancor più oggi con intrecciati e differenziatissimi titoli universitari.
Nel numero 854 del 15 luglio 2010 di Internazionale c’è un articolo interessante sulla la pratica di titolare a profusione all’interno delle aziende di tutto il mondo, in particolare in quelle grandi. Sembra quasi che la pratica tutta italiana del “dott” abbia assunto un aspetto diverso per adattarsi all’eterogeneo mondo produttivo.
Che sia la crisi ancora incombente che permette di elargire con maggior generosità titoli professionali piuttosto che premi in denaro? Che sia il desiderio di distinguersi per poter far valere, magari anche solo a se stessi, il proprio potere? Che sia una risposta, almeno formale, al continuo proliferare di nuovi ambiti produttivi? Qualunque sia la causa, pare proprio che l’idea nominare qualcuno, ad esempio, “capofacilitatore” non sia spiritosa ma inerente chissà quale organigramma aziendale. Il vizio è lo stesso che si ritrova negli annunci di lavoro nei quali, a dir la verità, qualche volta vien da chiedersi se la figura ricercata non sia frutto di un brainstorming un po’ troppo allegro anziché di una ponderata definizione professionale.
Otre al fastidioso risultato di creare confusione nel mercato e false aspettative nella futura classe di lavoratori (ad ogni livello), le “professioni titolate” rischiano, stando a quanto dice l’articolo dell’Economist ripreso dalla rivista italiana, di annebbiare il mercato del lavoro rendendo inutili i semplici dipendenti.
L’impressione è che alla domanda “chi fa cosa?” la risposta sia mancata nella sostanza ma non nella formalità in cui la fantasia e la generosità di termini hanno provveduto oltre misura. Nella mia organizzazione abbiamo scelto invece un percorso diverso: stiamo cercando di definire, in maniera condivisa con i diretti interessati, alcuni profili professionali. Lo sforzo sarà anche quello di capire in che misura, con quale risorse e con che stile possano essere delineate anche nuove funzioni per gli stessi profili, purché insistano sulle competenze già acquisite. Il metodo in questo senso è quello di guardare alla sostanza delle attività piuttosto che all’apparenza dei nomi che il mercato restituisce ogni volta che c’è una qualche novità. Mi sembra più sensato un percorso che preveda la nascita di nuovi profili professionali laddove ce ne siano ragionevoli e fondate motivazioni di carattere economico e produttivo.
Ogni professionista (in senso letterale) possiede, oltre che una faccia a cui affibbiare un titolo, anche una testa, un cuore, un cervello e tante altre parti con cui sviluppa molte competenze, capacità, strumenti. Sarebbe bene non fermarsi al volto. Anche perché, come diceva il principe Antonio De Curtis, “ognuno ha la faccia che ha, ma qualche volta si esagera!”